Virginia Woolf tante voci intorno a una teiera di Angela Bianchini

Virginia Woolf tante voci intorno a una teiera Lettere Virginia Woolf tante voci intorno a una teiera «La vita sarebbe disperata senza lettere», diceva Virginia Woolf. E di lettere lei ne scrisse a migliaia, per continuare, in silenzio, I suol dialoghi quotidiani con gli amici del Bioomsbury. Raccolte tutte Insieme per la pubblicazione, oggi formano un epistolario in sei grossi volumi, la cui edizione è stata completata l'anno scorso in Inghilterra e negli Stati Uniti, e che Einaudi sta traducendo per l'Italia. Dopo «Il volo della mente», è uscito quest'anno II secondo volume «Le cose che accadono» (traduzione di Silvia Gianetti, 776 pagine, 28.000 lire), che abbraccia il decennio 1912-1922. Sono gli anni della maturazione della Woolf, donna e scrittrice: Virginia conosce e sposa Léonard Woolf, pubblica il suo primo romanzo «Il lungo viaggio», fonda la casa editrice «Hogart Press». Ma sono anche gli anni in cui deve affrontare le prime crisi di salute, un esaurimento che I clamori della grande guerra accentueranno. Tra gli interlocutori più fedeli di Virginia figurano Lytton Strachey, Kelnes, Vanessa Bell, Katherine Mansfield, T.S. Eliot La bibliografia italiana di Virginia Woolf si è arricchita In queste settimane di altri due titoli: la raccolta completa del suol racconti, «Lunedi o martedì» (traduzione di Francesca Duranti, pagine 175, 5000 lire), edita da La Tartaruga e una biografia di Phyllis Rose tradotta dagli Editori Riuniti («Virginia Woolf», 237 pagine, 7000 lire). VERSO la fine di giugno del 1939, Oselle Freund volle fotografare Virginia Woolf e ci riusci, per cosi dire, con uno stratagemma: abbiamo la testimonianza in una lettera di Virginia diretta alla saggista argentina, direttore della rivista Sur, Victoria Ocampo. «Cara Victoria, mi duole molto che le si sia seccata l'altro giorno e abbia creduto che non la volessi vedere. E' perfettamente vero, ero seccata. Ho rifiutato tante e tante volte di essere fotografata. Due volte ho trovato scuse per non posare per Madame Freund. E lei me la porta senza avvertirmi, e questo mi convinse che lei sapeva che non volevo posare, e mi forzavate la mano. E proprio questo è accaduto. E' difficile essere sgarbati con la gente quando si è a casa propria. E cosi fui fotografata contro la mia volontà circa 40 volte, il che mi irritò. Ma quello che mi ha irritata particolarmente è aver perduto l'occasione per parlare con lei. E questa è una prova che la volevo vedere, lei ammetterà. E Dio solo sa quando ci sarà un'altra occasione. E Dio solo sa anche che senso abbiano queste fotografie. Io non lo so. E le odio. Scusi questa franchezza; ma se lei è onesta lo sono anch'io. Sua Virginia Woolf». Nella fotografia, pubblicata nel frontespizio del VI e ultimo volume delle Lettere, Virginia è una donna non più giovane e fisicamente provata. I pensieri e l'irritazione le si leggono nel viso aggrondato in cui soltanto gli occhi, quegli incredibili occhi, conservano lo sguardo della giovinezza, spalancato sul mondo. Un'immagine straziante, in un certo senso. Ma, e se non l'avessimo? Le lettere di Virginia sono un po' come questa foto: ci danno la sua vita quotidiana, i suoi corrucci, le sue stilettate (e sapeva darle), ma anche il gioco infantile, gli scherzi adolescenziali, l'alternarsi di ombre e di sole, di felicità e di disperazione, di passione (e le ebbe: per Vita Sackville-West, per Etnei Smyth), di odii e di gelosie (e ne soffrì), le ondate che le increspavano l'animo. La fotografia fu un'infrazione in una privacy che la Woolf conservava a stento. Quanto alle lettere, pare che fosse contraria alla pubblicazione. Nel settembre 1932, scriveva: «Credi che la gente (penso a Lytton e a Walpole) scriva lettere perché siano pubblicate? Io sono vanitosa come un pavone, ma non mi sembra di agire cosi. Infatti quando uno scrive una lettera, lo scopo è precipitarsi avanti; e qualsiasi cosa può venire fuori dal becco della teiera E tuttavia amava alla follia i diari e le lettere degli altri: 'l'arte umana; così definì in un saggio, la corrispondenza, specificando che era l'arte di tenere a bada la stanchezza mantenendo la conversazione con un assente. Per questo motivo, e per l'avvicendarsi, in lei, sempre, di stati d'animo opposti, di timidezza e vanità (e la timidezza la faceva morire al pensiero che le lettere sue fossero mostrate ad altri), e per quella fiducia nell'immortalità che coltivò in giovinezza e forse l'accompagnò fino alla morte, non credo che la pubblicazione massiccia delle sue Lettere l'avrebbe poi scandalizzata. Sono più vere della fotografia: meno fisse, perché colgono l'essenza del momento, e quella sua disperata e spesso trionfante lotta per dire anche il sommerso. Nel 1931, essa scriveva a Ethel Smyth che amò meno di Vita, ma alla quale disse di più: «... Mi sono allenata al silenzio; indotta a questo anche da terrore che ho della mia capacità illimitata di sentire — quando Lytton sembrava stesse per morire — ebbene si; neppure ora posso entrare in questo argomento. Ma, con mia sorpresa, man mano che il tempo passava, scoprii che tu sei forse l'unica persona che io conosca che mostri i sentimenti e li provi. E tuttavia non riesco a pensare di parlare del mio amore per gli altri, come fai tu. E' forse educazione? E' il timore perpetuo che ho di una forza ignota in agguato sotto il terreno? Non cesso mai di sentire che debbo camminare in punta di piedi sopra questo vulcano». Un vulcano, dunque, Virginia. E basterebbe questa ammissione, esitante, incerta, pudica a rendere senza prezzo la pubblicazione di queste lettere, e inutile, in certo senso, qualsiasi paragone della Corrispondenza nei confronti dei Diarii e di entrambi con i romanzi. Dal primo biglietto scritto a sei anni a James Lowell fino alle ultime righe dirette a Léonard prima di morire, ascoltiamo l'affinarsi della voce di Virginia, pur nei suoi tragici iati di follia e di dolori; dopo l'inevitabile frivolezza intelligente della gioventù con la banalità quasi xenofoba dei viaggi, delle scelte sociali obbligate, delle malignità un po' ottuse si va alla pienezza dei grandi romanzi, della passione per Vita e per Vanessa per approdare poi alla Virginia più aperta, più umana, anche se fragile e stanca, della vigilia della guerra. Se non avessimo le lettere, non sapremmo mai quanto abbiano confato per lei le Tre ghinee e quanto abbia strenuamente difeso questo saggio femminista che i suoi, pur affettuosissimi curatori, Nigel Nicolson e Quentin Bell, si ostinano tuttora a tenere in ombra. Non sapremmo mai quali accenti di amore, proprio quello che anni prima diceva di non poter esprimere, riusci a trovare per la sorella Vanessa, orbata del figlio, caduto in Spagna nel luglio 1937, durante la guerra civile. Non sapremmo mai quanti fattori si siano intrecciati (paura di essere invalida al momento di un'invasione tedesca, paura di non sapere più scrivere) a determinare il suicidio. Non conosceremmo il ritorno dignitoso, eppure struggente al ricordo di Vita che, a sua volta, le aveva scritto, pensosa, «My (once) Virgìnia», «Mia (un tempo) Virginia-. Non sapremmo come viaggiava negli ultimi anni ormai disponibile soltanto all'essenziale, all'inatteso, al recupero di alcune straordinarie coincidenze, proiettate, si direbbe, verso il nostro oggi. La fine, la morte, l'improvviso tacere del getto dalla teiera, durato cinquantatré anni, ci coglie ogni volta come un dolore ancora evitabile. Ma così non è, e possiamo soltanto tornare indietro ad ascoltare: A Vita. 21 maggio 1937. Cartolina. «Penso che lei (George Sand, dall'altra parte) ti rassomigli un po'. Abbiamo appena visitato il castello a Nohant — molto romantico. Bellissimo viaggio, campagna perfetta... Voglio comprarmi una casa e vivere qui. Ti è piaciuta l'Incoronazione? Qui, neppure l'ombra». Angela Bianchini Virginia Woolf di David Levine (Copyright N.Y. Review of Books. Opera Mundi e per l'Italia .La Stampa»)

Luoghi citati: Inghilterra, Italia, Spagna, Stati Uniti, Virginia