Nuccia e il soldato di Nerino Rossi

Nuccia e il soldato RACCONTO DA UN VOLUME «IN OMAGGIO ALLE GENTI DEL SUD» Nuccia e il soldato Diciannove scrittori italiani hanno accettato di riunire In un libro racconti, saggi e poesie «per rendere omaggio alle popolazioni del Sud duramente provate dal terremoto». Ha lanciato l'Iniziativa la Fondazione Anna Pane. Il volume, che si Intitola «La terra ferita» (pagine 171, lire 10.000) è stato stampato dalla Editrice Logos e II ricavato della vendita andrà al terremotati. Pubblichiamo uno dei racconti, scrìtto da Merino Rossi, vincitore del «Premio Napoli» con II romanzo ■Melanzlo» (Rusconi). Il soldato senti alla schiena un sudore freddo: non era più sicuro di non mentire. Via via che si era avvicinato a lei togliendo pietra dopo pietra carponi sulle macerie, non aveva smesso di parlarle. E le aveva promesso il mondo. Perché lei questo chiedeva e lui era certo di poter- glielodare. Ora, invece, sopra quel mondo che lei rivoleva c'era una montagna. Tutto quello che era servito per la vita: quel grandi cubi di tufo, la ringhiera del balconcino, quel comignolo rotolato intatto come una maledizione, e quell'asse, forse proprio l'asse del pane, che gli sbarrava il passo — tutto questo s'era messo di traverso fra lei e il mondo. Forse non era più giusto che lui le promettesse la vitaLui pure era un ragazzo. E non sapeva niente di quel paese, neanche il nome. E non aveva mai visto la terra spaccata: una lunga crepa in mezzo alla strada, che continuava fra gli alberi. Il camion non era passato; lui e gli altri s'erano allora messi i picconi in spalla. Ed erano andati su verso la grande nuvola. Poi si erano fatti tutti zitti,' perché un grande silenzio vuole cosi. Poi vicino a quella montagna tutta bianca aveva visto muoversi, adagio, alcune persone; e aveva capito per la prima volta che cos'è un cimitero: un luogo dove ci sono tanti morti e pochi vivi. Poi delle voci, dei lamenti lo avevano fatto tremare. E aveva visto le facce del compagni farsi tutte di biacca. Poi quelle divise s'erano messe a correre, sparse qua e là: due o tre per ogni voce. Il soldato si ridistese sulle pietre, verso la fessura. «Lo senti il rumore del mondo?» domandò. Avvicinò l'orecchio e udì solo un pianto. Era stato lui a darle la luce, facendo più larga quella fessura. E da quel momento la ragazza era stata sempre forte. Oli aveva spiegato come le era rimasta la vita. Forse, nel suo dialetto, si diceva proprio cosi. La scala era venuta in basso fino a sfiorarle la testa. Ma si era incastrata, e lei con le sue braccia l'aveva sentita ferma come un sasso. •Senti i rumori della genìe?» insistette il soldato. «Siamo in tanti». «Non voglio sentire». «Perché non vuoi?». «Voglio sentire tutto dopo». Il soldato misurò ancora una volja quel muro di cose sfatte che aveva davanti. E si disse che un terremoto è proprio questo: un muro di cose sfatte più forte di tutti i muri di questa terra. Si rialzò e mirò il piccone fra due massi di tufo. Ma il suo sforzo produsse solo qualche scheggia. Voleva almeno dare alla ragazza più luce. E fu indispettito da tutta quella luce che veniva come fuori dalle finestre di quella facciata di casa rimasta in piedi. Lasciò cadere il piccone e si mise in ginocchio. Si guardò le mani e si chiese se l'uomo le aveva grandi abbastanza. Poi riuscì a smuovere qualcosa. Ricordò di avere imparato che i raggi del sole sono miliardi e si domandò quanti ne potevano passare per un centimetro. «Nuccia! » chiamò il ragazzo. «SI». «Volevo dirti che sei più coraggiosa di me». « Più coraggiosa di un soldato? ». •Più coraggiosa di tutti i soldati del mondo». La voce della ragazza s'impastò di nuovo di paura. «Tu mi dici le bugie. E non mi tirerai mai fuori di qui! ». Il soldato, per la prima volta, si senti addosso tutto quello che aveva addosso la ragazza; e provò come la sensazione di soffocare. Si affacciò alla fessura che era grande poco più della sua testa. «La vedi la mia faccia? E' quella d'uno che dice 1p bugie?». «Ti ho già detto che ti vedo come uno straccio nero». Lui, invece, la Nuccia la vedeva. Proprio il viso, in una piccola luce sghemba, vedeva. Con due occhi che sembravano appena nati e due macchie su di una guancia, che però non erano ferite: cosi, almeno, lei gli aveva detto. Il collo, per quant'era sottile doveva essere lungo, lunghissimo, come non ne aveva mai visti dalle sue parti. il soldato si ritrasse e senti subito una gran furia dentro. Abbatté le sue mani su quella montagna. Anche quella doveva pure avere un ventre da squarciare. In ginocchio con le due braccia dentro quel foro, pensò alla forza d'un animale per farla tutta sua. E come un animale tirò, quasi vergognandosene. E quando la polvere lo accecò, serrò gli occhi e continuò. Era proprio il buio a dargli più forza. Continuò ancora. E quando si senti investito dalle pietre e dalla terra fu come preso da una felicità mai conosciuta. E sperò che quella frana benedetta fosse cosi grande da seppellirlo. Si stropicciò gli occhi e si mise dritto. «Geppe!». Il soldato si buttò in avanti, carponi. «Geppe, ti vedo!». «Nuccia», rispose lui «anch'io». Il soldato si rimise in piedi. Si strinse il capo fra le mani e sperò che il suo corpo si facesse più grande: solo cosi avrebbe potuto contenere la sua gioia. Poi un singhiozzo lo scosse tutto. Voltatosi verso il cielo, gli fece vedere le sue lacrime. Il foro, adesso, era grande il doppio. Ma lui lo vide ancora più grande. Prima vi aveva passato l'acqua e il pane, con una fune di stracci. Ora, forse, vi sarebbe passata lei. Ma decise di non dirlo alla ragazza. Fin dall'inizio era rimasto solo. I compagni erano lontani e lui non voleva chiamarli, per non spaventarla. Erano loro due soli, in quel deserto. Si chinò di nuovo. «Nuccia, un altro colpo e sei fuori». «SI, Geppe». Il soldato picconò il foro tutt'intorno, guadagnando un altro po' di luce e di vita. Guardò in alto e pensò che per fortuna il sole ci avrebbe impiegato un giorno a salire e a scendere dal cielo. Il suo non era poi un pensiero cosi sciocco, si disse. Non sempre a uno importa com'è fatto un giorno, e quant'è lungo. Voleva rimettere al mondo quella creatura. Era poi vero: aveva un collo lunghissimo. Dev'essere un segno di bontà, pensò. Ma soprattutto la bontà ce l'aveva negli occhi. Quegli occhi che adesso, finalmente, avevano di nuovo la sua età. Senza più quella ricerca dubbiosa del mondo che hanno gli occhi dei neonati. •Nuccia». «81, Geppe». •E' tanta, sai. la gente che riuscita a scappare». •Anche le vecchie. Geppe?». •Adesso che ti vedo, te lo posso dire. Ne ho proprio incontrata una che t'assomiglia». «Vuoi dire ch'era quella la madre mia?». Il soldato si mise una mano sulla bocca per darle la forza di mentire ancora. «E chi altra poteva essere, Nuccia? Non è vero che vi assomigliate?». «Come due gocce d'acqua: lo dicono tutti». Il soldato pensò che le disgrazie sono disgrazie anche perché costringono gli uomini a mentire. Eppure quella ragazza seduta laggiù credeva in lui. E glielo diceva tenendo la sua boracela stretta fra le mani e il suo pane in grembo. Rimase a guardarla per un po'. Sedeva nella positura che hanno i poveri. La stessa dei vecchi contadini delle sue parti. «Nuccia, oggi tu e io faremo una corsa» le disse con un sorriso. «Sai. di quelle che fanno venire il batticuore». «Come fai a sapere che mi piace correre?» rispose la ragazza, che per la prima volta parlò senza guardarlo. «Perché piace anche a me». «E dove correremo, Geppe?». «Correremo verso le pecore, verso gli alberi e i fiori, verso il sole. Verso tutto». •Sciocco che sei. sono due mesi che le pecore se ne sono andate» disse la Nuccia sottolineando con il mento levato il suo piccolo trionfo. Poi, con uno scatto che le percorse braccia e gambe: «Tirami via di qui! Che cosa aspetti, Geppe?». Il soldato poggiò una mano sul grande sasso che forse era stato il sasso di una soglia e che ora era il coperchio di quella cella. E disse: «Basta una corda. Nuccia. Adesso vado a prenderla». •Noool». «Va bene. Nuccia. Non ti lascio. Aspettiamo insieme» la rassicurò il soldato, che si voltò e rivoltò da ogni parte, agitandosi in quel grande spazio vuoto, come in una gabbia. Aveva, insieme, la pena di lei e la pena sua. Ma dal petto gonfio si fece venir fuori un sorriso e si affacciò di nuovo. «Mangia un po'. E bevi, piano piano». «Come alla fonte?». «Come alia fonte». Avrebbe potuto gridare, per avere aiuto. Ma il mondo di fuori lei non doveva conoscerlo. Fatto di niente e di nessuno, com'era. Lo prese la paura del tempo. Dalle sue parti s'era trovato tante volte solo, ma anche soltanto l'acqua fra gli argini, anche soltanto l'ingiallirsi delle foglie gli diceva il fluire del tempo, e la sua inesorabilità come forza. Ora non aveva certezza che il tempo si sarebbe comportato come deve comportarsi il tempo. Si sedette su quelle macerie e si abbracciò le gambe per fermarne il tremore. Della chiesa, davanti a lui, era rimasto soltanto il frontespizio. Per farsi forza si provò a immaginare quel paese tutto percorso dalla sua gente, con le voci stridule di un giorno di festa, con file di ragazze tutte strette sottobraccio che i ragazzi, ridenti, spezzavano. «Nuccia, domani andrai a passeggio col tuo moroso». Il silenzio della ragazza lo rimproverò. «Nuccia, di che cosa vuoi parlarmi?». •Tirami fuori di qui, Geppe! », Ci sarà pure una corda su questa terra, si disse il soldato. «Ora t'insegno come ti dovrai mettere la corda». «Come?». «Ti ci devi sedere sopra. Nuccia». «Come sopra?» fece la ragazza, già smarrendosi. Al soldato venne un sorriso vero. «Ma come sul dondolo, Nuccia! ». •L'altalena vorrai dire». «Dondolo è più bello. Cosi, lo chiamiamo dalle mie parti». Geppe pensò al suo dondolo, tirato fra due pioppi. Ma forse da quel buco la Nuccia non sarebbe passata. Forse si. Prese a misurarla facendo degli occhi un metro. Con l'amore dell'uomo per l'uomo. Della creatura per un'altra creatura. Il busto la Nuccia l'aveva stretto: la paura e la luce l'avrebbero fatto più stretto. Con la paura e la luce si viene al mondo. Nuccia, al mondo ci tornerai. Il soldato si drizzò. Ridiventò animale e fece un urlo. E poi un altro, un altro ancora. Poi trovò la parola: «Qualcuno!». Gridò altre volte. «Geppe!». «Nuccia. è il momento. Preparati». Disse il soldato e corse via. Corse su quelle macerie e su altre macerie come su un prato. Abbrancò un altro soldato, gli guardò addosso e corse via di nuovo. Ne raggiunse un altro. Un altro ancora. Quando vide un uomo con un elmetto e una corda a tracolla, lo agguantò e lo trascinò via con sé. La testa della Nuccia v?nne fuori subito. Il viso s'era fatto di bambina. Anche le due macchie erano graffi di bambina. Le spalle le girò e le rigirò lui con le sue mani. Poi lei le raccolse come in un abbraccio a lungo atteso. E cosi abbracciata rivenne al mondo. Come una bambina piccolissima che sta in piedi per la prima volta, si dondolò nell'aria. Poi restò ferma a lungo. Il soldato la portò giù dalle macerie. Qui lei si sciolse da lui. E fece pochi passi lentamente. Poi prese a correre, sempre più forte. Facendo delle braccia come due ali. Il soldato non la rincorse. Nerino Rossi

Persone citate: Merino Rossi

Luoghi citati: Napoli