«Sull'Europa la minaccia atomica» di Ennio Caretto

«Sull'Europa la minaccia atomica» GUERRA «Sull'Europa la minaccia atomica» — —— 1 X Il segretario di Stato di Kennedy e di Johnson ammonisce gli europei a non credersi osservatori neutrali - Sono «semmai il problema di fondo tra l'Urss e gli Stati Uniti» - Consiglia all'Occidente di «negoziare, rafforzando le proprie difese» - Ma è ottimista: «Malgrado tutto, credo che le crisi della Polonia e del Salvador si risolveranno pacificamente» - «Che Varsavia eviti gli errori di Praga» - «I Paesi dell'Est sono molto cambiati» - L'Afghanistan: «E' difficile stabilire se il Cremlino mirasse al Golfo» - «Nixon e Kissinger diffusero un infondato senso di sicurezza» - «II governo Reagan è ancora in una fase di transizione» - La "leadership" di Mosca affronta «un delicato momento» DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE ATLANTA — Mentre Mosca ospita il ventiseiesimo congresso del pcus, uno dei più importanti dell'odissea comunista, "Washington dibatte se la Polonia farà la fine della Cecoslovacchia, e il Salvador quella del Vietnam. L'apertura di Breznev tempera appena il clima di crescente pessimismo in cui il dialogo tra le superpotenze anziché il tono della distensione assume quello della guerra fredda. A Dean Rusk, il segretario di Stato di Kennedy e di Johnson, testimone delle tragedie di Praga e di Saigon, la situazione ricorda il '68. Lo trovo al Peach Tree Plaza Hotel di Atlanta, la città roccaforte del presidente Carter, seduto accanto alla fontana, su uno dei divani semicircondati dall'acqua che ne ravvivano l'ingresso. A 71 anni, egli rimane tra gli intelletti più vivi della storia della diplomazia americana. Insieme con l'ex ragazzo prodigio McNamara, il capo uscente della Banca Mondiale, Dean Rusk è l'ultimo rappresentante di quel sogno di benessere e di pace che si chiamò «la nuova frontiera» e «la grande società». Oggi, il giudizio di Rusk va controcorrente. Non ritiene il momento attuale uno dei più pericolosi dalla fine della guerra, né vede le superpotenze impegnate in un confronto inestricabile. «Malgrado tutto, dice Rusk, credo che le crisi polacca e salvadoregna si risolveranno pacificamente. Non ci sono certezze, ed è puerile arrischiare previsioni. Le probabilità che l'Urss decida di occupare la Polonia sono forse del cinquanta per cento. Ma se Varsavia eviterà gli errori di Praga, ciò non avverrà. L'Urss ha troppo da perdere e poco da guadagnare da un'invasione. Sarei pronto a scommettere, anche se i fatti potrebbero smentirmi già domani. Nelle vicende politiche i mass media e la pubblica opinione oscilla¬ no come pendoli dall'euforia della distensione all'isterismo della guerra fredda. In realtà sia la distensione che la guerra fredda sono elementi costanti dei rapporti russo-americani. Favorisce la prima la consapevolezza delle superpotenze di dover prevenire a tutti i costi l'olocausto atomico». — Da che cosa scaturisce la seconda? «In genere si dice che scaturisca dalla contrapposizione di due sistemi politici, economici e sociali inconciliabili, il capitalismo e il comunismo. Non è vero. La guerra fredda scaturisce dalla divergenza sulla forma e la sostanza della comunità delle nazioni. L'Onu sancisce l'autonomia, lo ha concepito l'Occidente. Ma l'Urss predica e pratica le guerre di liberazione, le rivoluzioni. Essa antepone il confronto alla collaborazione. Alla fine del secondo conflitto mondiale respinse l'offerta di partecipare al piano Marshall per l'Europa: rifiutò anche la proposta americana di consegnare l'intero materiale atomico alle Nazioni Unite. Tutti dimenticano che in quel periodo gli Stati Uniti attuarono la più grande smobilitazione della storia. Dal '47 al '49, il nostro bilancio militare non superò i 12 miliardi di dollari all'anno. Non avevamo più una divisione completa, navi e aerei erano in disarmo. A Stalin parve l'occasione propizia per estendere il suo impero: cercò di penetrare in Iran, in Turchia, in Grecia, bloccò Berlino, compi il golpe in Cecoslovacchia, promosse la guerra di Corea». — Il suo quadro della storia moderna è quello della resistenza occidentale all'aggressione sovietica. Non implica la giustificazione della rigidità di Reagan verso Mosca, e la condanna della disponibilità di Carter? «La matrice della guerra fredda è staliniana. Fummo costretti a riarmarci per difendere la pace, sino a intervenire nel Vietnam. Il riarmo è stato ed è indispensabile all'equilibrio internazionale, ma non è fine a se stesso. E infatti tutti i presidenti americani lo hanno accompagnato con una politica di distensione, con la ricerca cioè di possibili punti di accordo con l'Urss, per prevenire una catastrofe. Purtroppo questa diplomazia preventiva viene troppo spesso dimenticata, ma ha capitoli luminosi: la neutralità dell'Austria, il patto sull'Antartico, il bando degli esperimenti nucleari, il trattato di non proliferazione, il processo Salt... Con la loro enfasi sulla distensione. Nixon e Kissinger fecero scordare la presenza continua della guerra fredda. Sembrò che tutti i problemi fossero risolti, diffusero un infondato senso di sicurezza. Insieme con la stanchezza dello scandalo Watergate e del Vietnam, ciò indusse gli Stati Uniti ad abbassare la guardia. Carter rimase inizialmenmte vittima di questa atmosfera». — Nella maggioranza, gli europei giudicano la strategia di Reagan e del segretario di Stalo, Haig, molto rischiosa... «Il governo Reagan è ancora in una fase di transizione. E' come sospeso a mezz'aria tra la retorica della campagna elettorale e la responsabilità dell'incarico. Non credo che tutto quello che dice rifletta il suo atteggiamento reale. Ad esempio, non accetterei integralmente la sua asserzione che nel caso degli ostaggi non avrebbe trattato con l'Iran. Dubito anche che farebbe del Salvador un secondo Vietnam. In particolare, nessun segretario di Stato è mai entrato in carica con la conoscenza degli europei che ha Haig. Egli sa meglio di chiunque altro di quali margini di azione dispone nei loro confronti. «Ma all'Europa ricorderei questo: essa non è un'osservatrice neutrale. E' semmai il problema di fondo dei rapporti tra l'Urss e gli Stati Uniti. E' su di essa che potrebbe scoppiare un conflitto nucleare». — Ha ragione allora chi colloca l'invasione dell'Afghanistan nella logica della sfida dell'Urss all'Occidente, e chi vuole la Nato partecipe della difesa del Golfo Persico? «Neppure oggi possiamo essere certi degli intenti sovietici nel golpe a Kabul. Forse il Cremlino ha pensato di approfittare della speciale situazione che si era creata. L'Iran era sconvolto dalla rivoluzione, gli Stati Uniti erano paralizzati dagli ostaggi, il Pakistan si stava indebolendo sempre di più, in India si profilava il ritorno al potere di un amico di Mosca, la signora Gandhi, l'Europa non avrebbe sicuramente reagito. E' difficile stabilire se il Cremlino mirasse anche oltre, al Golfo». L'ex segretario di Stato americano riflette un istante: «Di sicuro, nell'Afghanistan l'Urss ha trovato il suo Vietnam, anche se potrà finire in maniera molto diversa». Ironizza: «Se mi avessero interpellato. li avrei sconsigliati. Quanto all'Occidente, e quindi anche all'Europa, commetterebbe un grave sbaglio se non tutelasse i suoi interessi nel Golfo Persico. Ripeto: distensione e guerra fredda si tengono sottobraccio. Se il governo Reagan sembra sbilanciato verso questa, l'Europa lo sembra verso quella. La via giusta è quella di mezzo, e nonostante le diversità l'abbiamo sempre percorsa insieme». — Perchè, esattamente, dubita che l'Urss invaderà la Polonia? «Per parecchi motivi. Varsavia ha vissuto la tragedia di Praga. Capisce che non può togliere il potere autentico al partito per darlo ad altri organismi, che non può scuotere l'alleanza militare sovietica, e così via. A sua volta. Mosca è cosciente che un'invasione si trasformerebbe in una vera guerra: i polacchi sono capaci delle azioni più irrazionali, se ne va della loro indipendenza. Inoltre l'Europa orientale è molto cambiata dai tempi dell'occupazione della Cecoslovacchia: avverte un certo patrimonio comune con l'Europa occidentale, certe istanze liberalizzatrici interne da cui del resto neppure la Russia è esente. «E' mutato anche l'atteggiamento della Nato. Oggi è molto più risoluto che durante la primavera di Praga. Senza dubbio questa modifica ha dei retroscena: la crisi afghana, la esasperazione di ■ Carter con Breznev, chissà, una richiesta segreta degli stessi polacchi. A tutto ciò si assomma il delicato momento del Cremlino, con una leadership molto anziana, alla vigilia della sostituzione». — Lei e il presidente Johnson siete stali accusati di non aver esercitato abbastanza pressioni sull'Urss perché non occupasse la Cecoslovacchia. «Rispondo che l'Urss decise l'invio dei carri armati a Praga d'improvviso, che noi cercavamo di impegnarla nel processo Salt anche per risolvere quella crisi, che l'Europa non ci appoggiava a sufficienza». L'ex segretario di Stato tradisce una profonda emozione: «Vi sono cose che non posso rivelare. Ma noi eravamo in contatto con Praga, e le autorità cecoslovacche ci pregarono di non intervenire nel loro confronto con l'Urss. Retrospettivamente, avevano ragione. Non saremmo mai entrati in guerra per la Cecoslovacchia, e non potevamo bluffare col Cremlino. Confidavamo che Dubcek avrebbe mantenuto il controllo della situazione». Nessuna fotografia ha mai fatto giustizia a Dean Rusk. Il diplomatico massiccio, sorridente in esse ritratto è invece un uomo alto, magro e propenso alla meditazione. Ricostruisce con angoscia «lo stupro di Praga: lunedì, 19 agosto '68, il giorno prima dell'invasione venne da me l'ambasciatore sovietico a Washington Dobrinin. Mi riferì che il Cremlino aveva accettato la proposta, da noi ripetutamente avanzata, di negoziare una limitazione delle armi strategiche. Era pronto a fare un annuncio congiunto per una visita di Johnson a Leningrado l'ottobre successivo. Quella sera mi recai alla Casa Bianca dal presidente. Eravamo inquieti per la Cecoslovacchia, sapevamo che l'Urss aveva ammassato truppe ai suoi confini. Ma pensavamo che non si sarebbe aperta al Salt se avesse progettato l'occupazione. Decidemmo di diramare l'annuncio mercoledì mattina, il 21. Ma la sera successiva, il consigliere del presidente, Rostow, mi chiamò d'urgenza alla sede del partito democratico, dove preparavo il programma elettorale. Dobrinin era andato d'improvviso da Johnson e gli aveva letto un messaggio del Cremlino. «Scoprimmo più tardi che il Politburò aveva preso la decisione solo il sabato precedente: i nostri servizi segreti non lo seppero a tempo. Tra i più insistenti perché si soffocasse la primavera fu la Germania orientale, timorosa del contagio. Qualche giorno dopo, si pose il problema della dottrina della sovranità limitata di Breznev. Era una razionalizzazione degli eventi a posteriori, o l'annuncio di una svolta ideologica? Quando pronunciai il discorso ufficiale degli Stati Uniti all'Onu, in ottobre, lo chiesi a Gromyko, che sedeva in prima fila. Dopo, molti rappresentanti dell'Europa orientale vennero ad abbracciarmi: "Ha parlato per noi" mi dissero». — Che consiglio potrebbe dare oggi all'Occidente? «Di negoziare, ma rafforzando le proprie difese, in Europa innanzitutto. Di non cedere al pessimismo. Di ricordare che l'ultima bomba atomica è esplosa più di 35 anni fa. Subito dopo la guerra, quando un'altra catastrofe sembrava vicina, rimproverarono al segretario di Stato della ricostruzione, George Marshall, un'eccessiva imperturbabilità. Ribatté: "E' fondata. Ho visto di peggio ". A Haig e agli altri ripeterei la stessa cosa. Molti avvenimenti appaiono più drammatici della realtà perché perdiamo la prospettiva della storia. Essa non viene riscritta tutti i giorni dai giornali e dalla televisione. Ha una sua logica. E questa logica mi dice che il pericolo di un olocausto atomico è oggi più lontano che in uno qualsiasi degli ultimi 35 anni. Non bisogna avere paura né di riarmarsi né di trattare. I dubbi vanno risolti alla luce degli anni a venire. Non dimentichiamo quelli sul bando degli esperimenti nucleari. Sarà mai verificabile? dicevamo. Oggi, se esplodesse una bomba, lo scopriremmo istantaneamente». Ennio Caretto Tre presidenti americani visti da Levine: qui sopra Kennedy, in alto Reagan e Johnson. (Copyright N.Y. Revlew of Books. Opera Mundi e per l'Italia .La Stampa-)