Padri missionari esplorano la Cina di Renata Pisu

Padri missionari esplorano la Cina LE METAMORFOSI DEL PAESE NELLE LORO CRONACHE DAL '500 A OGGI Padri missionari esplorano la Cina Gli attenti civili giudizi di un antico gesuita a confronto con le annotazioni di alcuni sacerdoti del nostro secolo - Un domenicano nel '76 scopriva affinità tra le parabole di Mao e il Discorso della montagna Un salvadanaio trovato in un negozio di cianfrusaglie con il cinesino inginocchiato che piega la testa se si infila un soldo nella fessura: sotto la scritta «Per le missioni». Due libri scritti da padri missionari, uno di venti e uno di trenta anni fa. uno trovato su una bancarella, uno regalato da un amico che sa della tua «sinomania». Infine una lussuosa edizione di Franco Maria Ricci La Cina, le arti e la vita quotidiana viste da padre Matteo Ricci e altri missionari gesuiti. Padre Matteo Ricci non è un antenato del Ricci editore, il quale spiega il suo interesse per la Cina forse per il fatto di esser nato «in riva a un fiume dal nome cinese, il Po. Paragonato ai veri fiumi cinesi il Po è poco più che un rigagnolo...». Ecco, considerando diverse testimonianze sulla Cina, tutte questa volta di segno cattolico, vien fatto di pensare che quel Paese rappresenta per noi il mezzo più inesauribile di metamorfosi. Sono immagini sfaccettate, a volte combaciami a volte contrastanti, ma che sempre ci costringono a ripensare la Cina e a ripensarci, forse perché quel Paese, che pure è tanto cambiato, è rimasto luogo dell'immaginario e dell'avventura evangelica-ideologica, che ci si vada a portare o a prendere lumi, che vi si mandino missionari o che si invochi, come Leibniz, che la Cina ne mandi di suoi a noi. Eppure proprio la testardaggine con cui il cattolicesimo ha tentato di penetrare in Cina desta di per sé ammirazione, perché ha generalo e continua a generare equivoci, alla fine rivelatori del nostro essere giudaico-cristiani marxisti rispetto al loro essere taoisti-confuciani marxisti, si voglia o non si voglia prendere di petto il marxismo che avrebbe dovuto fare da «ponte». C'è prima di tutto questa bramosia nostra di penetrare nel Paese chiuso per esplorarlo: ma è l'esplorazione di una civiltà, di una cultura, non del continente nero, come compresero nel XVI e nel XVII secolo i gesuiti i cui giudizi attenti e civili sulla Cina si possono leggere nel libro edito da Franco Maria Ricci. Diverso l'approccio dei due oscuri missionari del nostro secolo, penetrati in Cina nel periodo seguito allo sfacelo e alla colonizzazione. La Cina avvilita avvilisce anche il loro operato e il loro giudizio, si sentono in terra selvaggia. Bonario è sempre padre Nazareno M. Barbero, partito da Torino, città con il fiume dal nome cinese nel 1921 e rientrato nel 1925. autore di un libretto dal titolo Vado in Cina per cinque minuti e torno subito. Scherza sempre, anche troppo: un palanchino portato da due uomini è per lui una «berlina Fiat a due cavalli». Il ricsciò trainato da un uomo è «Pubblico taxi, IHP». Il cinese è senza dubbio la lingua parlata all'inferno, mentre in paradiso si parla italiano perché il Papa sta a Roma. A un catecumeno che gli venderebbe per poco un bambino e una bambina dice subito di si perché «questi sono due cristiani sicuri» e trova che sono due bei marmocchi, ma subito corregge «per quanto possono essere belli i cinesi». Sempre con la sufficienza di chi tratta con selvaggi pagani descrive la Cina dilaniata dai giapponesi e dalla guerra civile padre Carlo Suigo, autore di un libro di ricordi edito nel 1950 e intitolato Nella terra di Mao Tse-tung, sottotitolo: «L'autore sfuggito alla polizia del dittatore rosso racconta...». La scelta morale compiuta da padre Suigo rifiutando la sua opera di medico in favore dei comunisti lascia interdetti, cristianamente parlando, quanto la sua giustificazione: «Accettando un simile ufficio avrei dovuto restarvi fedele incondizionatamente e per sempre... ciò non conveniva e ho tentato di giocarli». Ma passano gli anni, la Cina di Mao Tse-tung si richiude ai missionari, e resta tuttavia un ecumene che attira la chiesa ecumenica. La stessa ansia che assaliva nel 1592 a Macao padre Matteo Ricci il quale si ingegnava a trovare il modo per «avere intrata in questo regno serrato» si percepiva su una rivista cattolica italiana che nel 1976 si poneva accoratamente la domanda: «Aprirà la Cina le porte a Cristo?». Per il domenicano Jean Car- donnel che scriveva sulla Cina nel febbraio del 1976, quel Paese le porte a Cristo le aveva invece già aperte con la rivoluzione culturale (quella che oggi è definita in Cina «catastrofe nazionale») nella quale molti altri teologi occidentali, dopo qualche esitazione avevano individuato un fenomeno mistico di assoluta purezza. Padre Cardonnel sosteneva la possibilità di andare a Cristo come «popolo» giudicando ai tempi nostri irrilevante la dimensione individuale della fede. Gli uomini, divenuti «popolo» con l'eliminazione dei privilegi e delle classi, erano in grado di conoscere l'universo e trasformarlo a loro immagine e somiglianza. E inoltre padre Cardonnel, sottolineando che quella che per i cinesi è la principale irriducibile contraddizione, cioè l'opposizione tra ricchi e poveri, non come per i sovietici tra due sistemi astratti, capitalismo e socialismo, scopriva affinità tra le parabole di Mao e il Discorso della montagna. Gli faceva eco in questa interpretazione un altro sacerdote, padre Michel Schooyans dell'Università di Lovanio il quale in un suo libro intitolato La provocazione cinese esaltava come tratto estremamente originale di quella società Tantiprofitto e definiva la rivoluzione culturale una rivoluzione-conversione. Questo tanto per ricordare come il «maoismo» non abbia provocato sbornie soltanto in una sinistra marxleninista oggi pronta a ritrattare, ma anche là dove meno lo si sospetterebbe e dove non si recitano tanti mea culpa. Renata Pisu