La città d'oro in mezzo al deserto di Igor Man

La città d'oro in mezzo al deserto NEL CUORE D'ARABIA, A 1600 METRI, TRA IL VENTO E LE ROCCE La città d'oro in mezzo al deserto E' Taif, a un centinaio di chilometri dalla Mecca - Quattro anni fa era poco più di un villaggio, oggi è una nuova Brasilia immensamente sfarzosa, con regge, giardini, fontane, terrazze, archi, mura gigantesche - I petrodollari sembrano inesauribili - Recentemente la città ha ospitato 38 capi di Stato arabi, la conferenza dicono sia costata mille miliardi di lire DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE TAIF — Qui, nell'anno 619, il Profeta venne preso a sassate e cacciato da turbe di mendicanti e ragazzi. Qui, nel decimo anno dell'Egira, Maometto, una volta conquistata la Mecca, tornò «per punire i malvagi e convertire i buoni». Qui, nel 1924, il leggendario Ibn Saud (colui che a colpi di spada e di astuzia edificò il regno dell'Arabia Saudita, proclamato nel 19321 sparse molto sangue per soggiogare la provincia dell'Hejaz. Qui, a milleseicento metri d'altezza, soffia perenne il vento. Un vento che scienziati e poeti — una volta tanto d'accordo — definiscono talmente forte da sradicare il deserto, sicché «le enormi rocce rosse drizzate contro il cielo sono, in vero, i pilastri della terra». Solo quattro anni fa Taif era un villaggetto dove il re e i cortigiani trascorrevano i mesi più torridi dell'anno, dalla fine di giugno agli inizi di ottobre. E chi non possedeva una villa era costretto a stiparsi in una sorta di albergo niente affatto confortevole. Dicono in Oriente che «la ricchezza è una prova che Dio impone agli uomini pii»; in dieci mesi, a botte di miliardi di dollari, su questo suolo nudo e selvaggio, inviolato, gli arabi sauditi hanno costruito la loro Brasilia, orgogliosa e opulenta. Un monumento alla ricchezza e all'efficienza. Un sontuoso palazzo-cattedrale, che sembra uscito dalle scenografie del futurista Virgilio Marchi, s'addossa alle colline sanguigne. I suoi archi di vetro fumé sono una vera e propria sfida architettonica, le sue mura nere e ocra muraglioni lunari e le sue larghe porte si spalancano su di un interno di bianco marmo di Carrara. Ai piedi di palazzi-cattedrale, terrazze. giardini, fontane. Nel mausoleo, meraviglia tra le meraviglie, s'allarga la ottagonale sala delle conferenze, dalle pareti ricoperte di legno di rosa. Centinaia di scrivanie in tek poste a semicerchio, su ogni scrivania un monitor televisivo, una selva di microfoni, vassoi e caraffe d'argento. Durante la terza conferenza islamica, i giornalisti, quando le sedute etano pubbliche, potevano vedere e ascoltare sovrani e presidenti grazie a un circuito interno televisivo. Ma una volta mi capitò di entrare nell'aula delle conferenze, nel corso di una seduta a porte chiuse. Non udii assolutamente nulla: sul podio era il prìncipe Feisal, ministro degli Esteri, lo ledevo muovere le labbra come un pesce in un acquario ma ai delegati la sua voce giungeva attraverso le cuffie. Quel silenzio, mi spiegarono. faceva parte del cerimoniale e mi venne fatto di concludere, senz'altro banalmente, che se la parola è d'argen to, il silenzio, appunto, è d'oro. D'oro massiccio, nel caso in questione se si considera che la conferenza è costata mille miliardi di lire. In questi mille miliardi sono comprese le spese per costruire due grandi alberghi (l'Intercontinental - loSheraton). le quaranta ville per gli ospiti, la grande moschea, quattro strade a otto corsie, il vasto aeroporto e gli alloggi per gli ufficiali della base aerea — in fatto una città satellite — a trenta chilometri dal palazzo dei congressi, dove eravamo ospitati noi corrispondenti? Non si sa. Del resto gli arabi sauditi contestano la stessa spesa globale di mille miliardi ipotizzata dagli esperti in base a un pignolo collazionare di cifre piuttosto impressionanti. Per esempio: il lampadario a forma di candeliere che faceim sfavillare l'aula della conferenza, lui solo è costato duecentoquaranta milioni di dollari. «Che importanza può avere — mi è stato detto — qualche miliardo di dollari in più 0 in meno? La bellezza non ha prezzo e l'ospitalità imponeva ai principi sauditi di accogliere degnamente i trentotto capi di Stato e primi ministri venuti a Taif un po' da tutto il mondo islamico per affermare il risveglio dell'Islam». Insomma, il giuoco (la conferenza! valeva la candela. In verità è stata, quella di Taif, una grossa operazione politica che si prefiggeva due obiettivi: sancire la leadership dell'Arabia Saudita nel mondo islamico, agganciare l'Africa musulmana al problema del Medio Oriente (Gerusalemme, i territori occupati di Palestina). A corollario di codesti obbiettivi — entrambi centrati —è stato trasmesso alla nuova amministrazione americana un messaggio piuttosto preciso. Eccolo: Camp David è un capitolo chiuso. Sarebbe irrealistico pensare che la cosiddetta -dinamica della pace» possa rimettersi in movimento solo per il fatto che a partire dalla prossima estate 1 laboristi saranno al potere in Israele. Reagan deve inventare una nuova politica mediorientale, deve, cioè, rassegnarsi ad accettare l'Olp quale interlocutore valido. (Lo stesso re Hussein ha detto: «Non esiste una opzione giordana, l'unica valida è quella palestinese»). E, -last but not least»: «La Casa Bianca deve fidarsi dei Paesi arabi moderati ma non può pretendere che gli stessi aumentino il pompaggio del greggio secondo le esigenze dell'Occidente, che accettino un'eccessiva presenza americana nel Golfo, che rinuncino a servirsi dell'arma del petrolio (in senso politico) senza offrire qualcosa in cambio. E cosa esattamente? E' presto detto: una soluzione onorevole del problema palestinese». L'abile regìa saudita della conferenza è stata incentrata su due poli: sfarzo-concretezza. Il primo per rammentare come nel prossimo quinquennio l'Arabia Saudita incasserà per la vendita del petrolio 675 mila miliardi di lire dei quali, «pur avendo un cantiere aperto in ogni angolo del reame.. non riuscirà a spendere che una parte. Il -surplus» da destinare agli investimenti all'estero — soprattutto in Usa — dovrebbe aggirarsi sui 270 mila miliardi. Una cifra da capogiro. Il secondo polo ha fatto sì che dietro un'apparente intransigenza (denuncia della risoluzione242 dell'Onu; boicottaggio islamico dei Paesi stranieri che -collaboreranno» con Israele: la minaccia di chiedere l'espulsione di Israele dalle Nazioni Unite! risultasse chiaro come la «jihad» (guerra santa! abbia una connotazione ideologica piuttosto che vere e proprie caratteristiche militari. C'è di più: la mobilitazione antisionista non pregiudica affatto l'esistenza di Israele. Infatti si è parlato solo dello sgombero dei territori occupati dagli israeliani nel 1967 e per quanto riguarda il futuro Stato palestinese s'è detto chiaro ch'esso dovrà sorgere -su qualsiasi lembo della Palestina evacuata da Israele» (vale a dire in Cisgiordania e Gaza). Certo di fronte alla obiettiva pericolosità della massiccia presenza sovietica in una delle regioni più nevralgiche del mondo (150 mila uomini in Afghanistan: 125 mila uomini alle frontiere con l'Iran: due possenti flotte, una in Mediterraneo e l'altra nel Golfo) gli Stati Uniti non possono essere tranquillizzati dall'orgoglioso non-allineamento postulato alla Mecca da re Khaled: «Noi non siamo né con l'Est né con l'Ovest, siamo con Dio». Di fronte alla minaccia sovietica, ha buon giuoco Tel Aviv quando prefigura l'eventuale creazione di uno Stato palestinese come «il principio della fine di quel baluardo difensivo dell'Occidente che è Israele». Al tempo stesso non sembrano destinate a cadere nel vuoto le parole del principe Feisal quando, a Taif, in una conferenza stampa, ammonisce -chi di dovere» come / N la mancata soluzione del problema palestinese finirebbe col creare un insostenibile clima di tensione, destinato a sfociare in una nuova guerra «che questa volta non vedrebbe l'Urss rimanere al balcone. Per cacciare l'Urss dal portone, si rischia di vederla rientrare dalla finestra». Che fare, allora? Continuare ad allestire nel Nord Dakota squadroni di B 52 capaci di intervenire in Medio Oriente •alla benché minima minaccia» nel volgere di 36 ore? A questo interrogativo i sauditi rispondono ricordando le parole con cui il principe Fahd, a suo tempo, liquidò sema complimenti la cosiddetta -dottrina Carter»: «Penso che coloro che parlano di certe minacce creino essi stessi i rischi che dicono di temere. Dove porterebbe una azione militare? All'invasione del deserto? In tal caso noi. che del deserto siamo figli, sappiamo come proteggerci e come sopravvivere. A impadronirsi dei pozzi per salvarli? In questo caso tutti sanno che i pozzi salteranno e che noi ce ne assumeremo la responsabilità». Ancora gli arabi sauditi citano quanto l'americano Walter J. Levy ha scritto su -Foreign Affairs»: «L'unica cosa assolutamente certa, nell'ipotesi di una azione militare nel Golfo, sarebbe la distruzione immediata degli impianti petroliferi, proprio quelli che in via di principio si vogliono proteggere e conservare». Sicché concludono — ed è questo il senso della terza conferenza islamica, del -messaggio della Mecca» — che la migliore garanzia contro la minaccia sovietica è un mondo arabo omogeneo, sotto la leadership saudita. Ma perché questo mondo arabo possa raggiungere omogeneità è necessario eliminare l'ascesso di fissazione: il problema palestinese. Igor Man

Persone citate: Ibn Saud, Profeta, Reagan, Walter J. Levy