Reprimere ma non uccidere di Massimo Mila
Reprimere ma non uccidere dopo mila, galante garrone sulla pena di morte Reprimere ma non uccidere Non nascondo che mi avrebbe rallegrato il consenso di Massimo Mila: uno dei pochissimi uomini che incondizionatamente ammiro in questo basso mondo. E di lui mi piace — anche in quest'ultima sua sortita — la diritta franchezza, oltre al suo gusto, magari un po' brusco e urtante e scanzonato, di bastian contrari. Nell'accingermi a questa replica, voglio subito mettere in chiaro che in qualche punto sono più vicino a lui di quanto egli non pensi. Mila dice che anche senza essere fascisti si può essere di diversa opinione dalla mia, sulla pena di morte. Certo. E l'avevo detto anch'io, quando avevo riconosciuto il «sincerìssimo impulso di tanta gente, che fascista non è e non vuole essere». Dirò di più. Non capisco perché Mila affermi: «Naturalmente non firmo la petizione dei missini». Se giusto è l'oggetto della petizione, per quanto detestabili siano gli interessati promotori, non vedo perché non si potrebbe firmare una petizione rispondente a esigenze di giustizia: magari turandosi il naso per certe sgradevoli contiguità, e in ogni caso non lasciandosi irretire dai miserabili calcoli dei promotori. La petizione popolare, di fronte al Parlamento, è solo di chi la firma. Non nego che il mio amico possa avere raccolto il plauso di tanti compagni partigiani. Anch'io ho avuto, subito dopo il mio articolo, il consenso di partigiani che mi sono carissimi: e il primo è stato Nuto Revelli. Ma non è questo che conti. Etsi unus, se anche rimanessi solo nel mio convincimento, e mi sentissi staccato dagli amici più cari, e nessun argomento venisse a persuadermi di essere in torto, io rimarrei della mia idea. E cosi farebbe Mila. Aggiungo che mi pare del tutto fuorviarne una critica letta qualche ora fa. L'atteggiamento di Mila sarebbe, secondo questo censore, il segno di un «rigorismo» quasi maniacale, la «fissazione» di un «ipnotizzato dal terrorismo», che, con questo «pretesto» del terrorismo, è pronto a far getto, a «smantellare» e «svendere» tutto lo Stato di diritto. «Ah no, porca miseria»: dirò anch'io come Mila. Nell'avversione al terrorismo rosso o nero, e sulla necessità di un'assoluta intransigenza, di non cedere di un pollice, di una durezza repressiva, io sono d'accordo con lui, fino in fondo. E non l'ho mai nascosto. Ma questo é un altro discorso, che non tocca il problema della pena di morte. Chiarito tutto ciò, mi limito a qualche considerazione terra terra, da buon «alpinista ciabattone», lasciando ad altri le vertiginose pareti del sesto, e magari del settimo grado. Non basta limitarsi a dire che dopo tutto la pena di morte è in vigore in Stati non propriamente barbari, come la Francia e gli Stati Uniti. Dobbiamo considerare che in questi ultimi anni, in tali paesi, si è fatta sempre più strada, in teoria e in pratica, un'inarrestabile tendenza abolizionista. E quanto all'Unione Sovietica, Mila converrà che una siffatta tendenza troverebbe qualche non lieve difficoltà a venire alla luce e ad affermarsi. Ma quel che soprattutto mi par discutibile è quel criterio — come qualcuno ha detto, da «farmacista del diritto» — secondo cui a delitti particolarmente atroci dovrebbe rispondere una pena eccezionalmente grave. Dare l'ergastolo alla moglie che avvelena il marito e una egual pena agli infami au¬ tori della strage di Bologna, sarebbe addirittura una «giustizia da Caino». Ragioniamo un po'. Di questo passo, quale pena dovremmo applicare, se mai ha senso una simile graduatoria nel male, di fronte a misfatti come quelli degli aguzzini delle camere a gas, allo sterminio di milioni di ebrei? La tortura forse, le «sevizie particolarmente efferate»? Ma come non ci si avvede che, con quest'affannosa ricerca di pene sempre più commisurate all'enormità dei delitti, ci si metterebbe su un piano fatalmente inclinato, e si scivolerebbe — come già dicevo — verso il sanguinoso terreno di uno scontro frontale tra schieramenti contrapposti, con armi egualmente ignobili, nel quale alla suprema viltà del delitto risponderebbe un assassinio ipocritamente ammantato di sanzione legale? Sarebbe (e non starò a ripetermi) una risposta dello Stato non soltanto inutile, ma pericolosa: quella che gli stessi terroristi vorrebbero. Mi pare che solo questi siano gli argomenti da addurre o da confutare. Lasciamo dun que da parte le fedi religiose (delle quali non avevo parla to), o le tradizioni di civiltà, principi costituzionali, le ragioni ideali da me sempre soste nute, e riemerse nitidamente alla luce nelle discussioni di questi giorni. Ma lasciamo anche in pace Machiavelli, caro Mila; e non tiriamo in ballo Hegel, e Marx, e Nietzsche, quasi che fossero i progenitori dell'umanitarismo abolizioni sta, e non piuttosto il serbatoio a cui hanno attinto — spesso tradendone il pensiero — gli apologeti di quell'implacabile disprezzo della vita umana dal quale cosi sovente deriva la ri' chiesta della pena di morte (e non è questo il tuo caso!). Cerchiamo piuttosto di risalire alle ragioni effettive di quest'opinione esasperata che va dilagando. Forse, il perché è da ravvisarsi in un sentimento misto d'allarme e di sdegno non solo per l'efferatezza dei crimini, ma per le inettitudini, le colpevoli tolleranze, i ritardi che sono sotto gli occhi di tutti. Provideant consules. A. Galante Garrone
Persone citate: A. Galante Garrone, Hegel, Machiavelli, Marx, Nietzsche, Nuto Revelli
Luoghi citati: Bologna, Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica
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