Scuola e università in camicia nera

Scuola e università in camicia nera DOCUMENTI E FIGURE DI UN'EPOCA NEL SAGGIO DI UNO STORICO FRANCESE Scuola e università in camicia nera Al termine degli Anni Venti, e pur dopo la fine della pubblicazione del «Bareni», il ricordo di Gobetti — questo angelico maestro e corrispondente di professori, questo intellettuale senza cattedra — era così vivo nell'Università di Torino che gli studenti antifascisti salutarono la lezione inaugurale di Francesco Lemmi, chiamato alla cattedra di storia del Risorgimento nella facoltà di lettere (la stessa che poi terranno in questo dopoguerra Walter Maturi e Aldo Garosci), con un'ovazione al nuovo professore scandita dallo slogan: « Viva il Risorgimento senza eroi». Erano quelli gli anni in cui Francesco Ruffini, reduce da un discorso antifascista pronunciato in Senato, riceveva a casa un mazzo di fiori portatogli dagli studenti; gli anni in cui Aldo Garosci diffondeva il giornale «La difesa liberale» e incidenti fra studenti fascisti e antifascisti non mancavano di incrociarsi con costanti manifestazioni di superba indipendenza del potere accademico torinese da un conformismo non ancora diffuso e raggelante. Talvolta contrastate dalla prefettura, come nel giugno 1928: ma senza successo. Uno dei paradossi dell'università italiana nel primo decennio del fascismo fu di riuscire a difendere una relativa indipendenza — il caso di Torino lo dimostra — proprio grazie alle misure sull'autonomia funzionale degli istituti universitari volute dal primo ministro della Pubblica Istruzione di Mussolini, Giovanni Gentile. La famosa «riforma Gentile», tanto esaltata e poi tanto contrastata e svuotata dallo stesso fascismo, aveva investito solo di scorcio le università: rispetto alle novità risolutive introdotte nella scuola secondaria, a cominciare dall'esame di Stato (e così malviste, e mal sopportate, che lo stesso Mussolini sostituirà Gentile alla fine del giugno '24, proprio per placare il temporale avanzante sulle scuole in procinto di affrontare il periodo di esami). Ma la «razionalizzazione» di Gentile si era fatta egualmente sentire negli atenei. Il filosofo siciliano conosceva tutta la vita universitaria dall'interno, in tutte le sue pieghe e in tutti i suoi segreti, anche con tutti i difetti e gli squilibri e le annesse camorre (che aveva denunciato in opuscoli famosi). Concordava con Croce -l'uomo che si era sempre rifiutato di sottoporsi a prove universitarie — nel giudicare l'università strumento essenziale ma non esclusivo della ricerca. Da tempo si batteva contro la «superproduzione intellettuale o pseudo-intellettuale» dell'Italia. Temeva la proliferazione di istituti universitari a caso, o secondo interessi di collegio. Non a caso Gentile cominciò dal dividere rigidamente le università italiane in due classi, «A» e «B». Dieci per la prima, dieci per la seconda. In serie «A» le più gloriose, quelle a dimensione veramente e tradizionalmente «regionale»: Bologna, Torino, Genova, Padova, Pavia, Pisa, Cagliari, Roma, Napoli e Palermo. In serie «B», le nuove o nascenti (a tre delle quali, Milano, Firenze e Bari, dava egli stesso il battesimo): Catania e Messina, Macerata, Parma e Modena, Sassari e Siena. Oltre le tre scuole di ingegneria di Milano, Torino e Bologna e la scuola di costruzioni navali di Genova. Pur con la nomina, autoritaria, dall'alto, del rettore e del preside, era assicurata una larga libertà didattica (attraverso la possibilità, per ogni istituto universitario, di elaborare propri piani di insegnamento, di studi e di esami) associata a una notevole autonomia amministrativa. A proposito: non così vasta come l'aveva immaginata la legge Matteucci, agli albori della destra storica, nel giugno 1862, con la retribuzione dei docenti proporzionale al numero dei corsi e degli studenti (che era un'antica, medievale tradizione dell'università di Bologna: immaginatevi adesso, dopo la legge-delega dei «todos caballeros» e dei professori senza studenti!). Le leggi Gentile assicuravano, fra università e fascismo, quel modus vivendi che Bobbio ha riassunto con parole icastiche, nel suo saggio su fascismo e cultura: «L'università fu lasciata in pace purché lasciasse in pace». E questo ricco e documentarissimo volume che uno storico francese agguerrito, Michel Ostenc, ha dedicato alla Scuola italiana sotto il fascismo (ed. Laterza) non aggiunge, per quanto riguarda l'università, elementi nuovi a quelli finora conosciuti: li riordina, li articola, li collega, con grande lucidità, al processo di trasformazione, che non fu irrilevante, degli altri settori della scuola, cui dedica una prevalente attenzione. La stessa scelta dei ministri della Pubblica istruzione di Mussolini (che si continuano a chiamare così fino al 12 settembre 1929, quando nasce il dicastero dell'Educazione na¬ zionale) è significativa degli adeguamenti e delle convenienze accademiche verso il nuovo regime. Sbalzato Gentile, Mussolini pensa per un momento a Croce; ma il suo rifiuto, e il suggerimento dello stesso ministro rimosso, portano alla scelta di un amico fedele di entrambi, di Croce e di Gentile, nella persona di Alessandro Casati, vice-presidente del Consiglio superiore ed esponente del mondo liberale italiano (lì la confusione era massima: si pensi che Giovanni Gentile, ministro da due mesi, aveva inaugurato una rivista .bimestrale il 1° gennaio 1923 col titolo La nuova politica liberale; essa diventerà poi L'educazione politica e infine L'educazione fascista). Travolto Casati dal 3 gennaio 1925, Mussolini torna ad un universitario, questa volta cattolico ed anti-gentiliano, Pietro Fedele, che sarà celebre per l'Enciclopedia dell'Utet prima ancora che per i suoi studi di storia medievale: Gentile protesta, chiede garanzie, detta condizioni, ma di fatto il ciclo avanzante della sua riforma è interrotto. Si prepara la conciliazione col Vaticano; il Concordato, cui Gentile si opporrà fino in fondo, smentirà molte di quelle pregiudiziali o le convertirà in senso opposto al loro ideatore (si pensi all'insegnamento religioso nelle scuole elementari e medie). Dopo i tre anni e mezzo di Fedele, Mussolini si volge a un ordinario di discipline non più umanistiche, a un professore di ingegneria a Milano: ed è l'intermezzo di Giuseppe Belluzzo, dal luglio '28 al settembre '29. I contrasti con la Chiesa, dopo la stipulazione del Concordato, riportano d'attualità, ma in funzione strumentale e subalterna, il gentilianesimo: è il momento di Balbino Giuliano (da ragazzi, nessuno capiva bene quale fosse il nome e quale il cognome), dalla fine del '29 a metà del '32. Dalla filosofia ancora alla storia moderna: con la scelta, nel luglio '32, dell'ultimo cattedratico formato r.el clima dell'Italia prefascista e arrivato al fascismo dal nazionalismo, Francesco Ercole. E subito dopo la rottura coi mondo università rio e la fine dell'autonomia ac¬ cademica e il tentativo di fascistizzazione integrale della scuola, col quadrumviro Cesare De Vecchi di Val Cismon. Fino alle sottili riparazioni di Bottai. Nel mezzo — ottobre 1931 — l'amara vicenda del giuramento di fedeltà al regime imposto agli universitari. Undici resistenti su 1.200 docenti: venti, corregge Ostenc, aggiungendo, ai «no» formali, i pensionamenti politici vari. E Torino sempre in prima linea: con Ruffini, con Carrara, con Lionello Venturi. Croce raccomanda ai suoi amici di non abbandonare l'università, di non lasciarla in mano ai fascisti e clericofascisti. E Gentile, pure in rottura completa col compagno di tante battaglie, non mancava di partecipare all'omaggio della facoltà di Roma a Gaetano De Sanctis, il grande studioso del mondo classico che usciva dall'università, che troverà protezione e riparo nell'Enciclopedia. In quell'occasione Gentile disse qualche parola. Il rettore, Giuseppe Cardinali, un antifascista, gli chiese di metterle per iscritto. Il saluto rimase, ma attenuato. Ecco la storia dell'università italiana durante il fascismo. Giovanni Spadolini • Mussolini visto da Levine (Copyright N.Y. Revlew of Bookx. Opera Mundi e per l'Italia .La Stampa)-