Le «parole colorate» di Barthes e Sinisgalli
Le «parole colorate» di Barthes e Sinisgalli ROMA, DUE MOSTRE A CONTRASTO Le «parole colorate» di Barthes e Sinisgalli ROMA — Sere fa, si è inaugurata nel Casino PallaviciniRospigliosi, sotto la celebre Aurora del Reni, una mostra di circa 250 esercizi pittorici del semiologo Roland Barthes. Se non fosse morto un anno fa e ci fosse stato anche lui, garbato e civile com'era, probabilmente sarebbe stato molto imbarazzato. Anzi, vedendo con quanta pompa era celebrato — lussuoso catalogo della Electa di 200 pagine, discorso di Biasini, ministro dei Beni Culturali, alto patronato del Presidente della Repubblica e tanto di Comitati d'onore, promotore e persino scientifico — veniva spontaneo immaginarlo, nell'aldilà o meglio nei Campi Elisi, intento a scusarsi col poeta e scrittore Leonardo Sinisgalli, morto all'improvviso nei giorni scorsi, mentre era appena incominciata una mostra di suoi disegni in una piccola galleria romana di via Borgognona: più che una galleria, una cantina a cui si accede scendendo una ripida scala, non senza pericolo di sbattere la testa. In realtà, volendo usare un termine caro alle letterature romanze, due mostre «a contrasto» che, a parte ogni altra considerazione di costume, sottolineano quanto sia importante la moda, proprio come, per altri versi, diceva Barthes. Capace di mutare il naturale corso degli eventi e di far dimenticare ciò che Argan, quasi puntigliosamente, ribadisce in una delle prefazioni del catalogo: i disegni dei letterati sono letteratura, interessano come una parte del loro lavoro letterario. E che fosse una puntualizzazio- ne doverosa ed esatta, lo si constata visitando, con cura, magari consecutivamente, le due mostre. Si potrà cosi osservare come gli scarabocchi di Sinisgalli siano pieni di riferimenti ad amici letterati, alle sue letture predilette, ai suoi ultimi vagabondaggi nella nativa, mai dimenticata Lucania. Sempre però immuni da tentazioni di mettersi in concorrenza con i pittori, che fra l'altro conosceva molto bene, avendone scritto a lungo su settimanali e riviste. Le sue linee tracciavano figure e paesaggi, costantemente, un tantino ermetici, come diceva egli stesso, al principio quasi indecifrabili poi via via abbastanza riconoscibili e fraterni. E, in fondo, lasciavano trasparire la sua caratteristica matrice culturale e poetica, la sua famosa sensibilità visiva, la sua capacità di creare immagini che, come rilevò De Robertis, parlano soprattutto alla mente e quasi per nulla ai sensi. In definitiva — ed è ancora lui stesso a confessarlo — un disegno che nell'inferno del dolore taciuto, in cui ho vissuto negli ultimi anni, mi ha dato l'illusione, qualche volta, di entrare in paradiso. Un discorso che, fatti salvi i differenti interessi dei due letterati, grosso modo può essere fatto anche per le sperimentazioni grafico-pittoriche di Barthes. Le quali, pur nella loro apparente dimensione privata e malgrado il sapore vagamente tachiste, sono strettamente legate alle acutissime, sensibili analisi strutturalistiche che resero famosi i suoi seminari all'Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Forse non è casuale che, più volte, i fogli da lui usati per questi esercizi pittorici rechino l'intestazione di tale istituto. Già è stato messo in evidenza come questo piacere per la pittura sia nato nel 1971, dopo un viaggio in Oriente e conseguente stesura del libro L'Empire des signes, che presto verrà pubblicato anche in italiano da Einaudi. Sembrò un improvviso colpo di fulmine. Ma, considerando lo sviluppo delle sue ricerche linguistiche e in particolare quell'insistita sua domanda, proprio in quegli anni: che cosa godiamo del testo?, ci pare che non ci siano dubbi sui rapporti che queste pitture hanno con tutto ciò che egli andava elaborando in ambito letterario. L'organizzazione dei segni caliigrafici-pittorici orientali, cosi diversi dalla scrittura occidentale, quasi certamente rafforzò in lui alcune intuizioni. Ed è per questo che, con accanimento e sistematicità —i fogli dipinti sono circa 700, tutti numerati — egli cercò di sperimentare e capire la strutturazione del segno grafico e del colore. Una ricerca, in un certo senso, minore, parallela, tenuta un po' segreta (non volle mai esporli) perché sapeva di non essere un pittore ma soltanto uno che cercava di comprendere alcuni meccanismi strutturali. In conclusione, due mostre interessanti, da guardare con attenzione, senza lasciarsi però prendere da languori estetici o altro. Mantenendo al contrario (per parafrasare il titolo di un libro, appunto, di Sinisgalli) un certo Furor mathematieus. Che poi significa intensa voglia di capire ma con la massima chiarezza e razionalità. Francesco Vincite-rio Rld Bh Roland Barthes: un esercizio pittorico del 1971
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