Le due orchestre di Stefano Reggiani

Le due orchestre Fellini e Wajda Le due orchestre In Polonia il sindacato e gli intellettuali ottengono che i prefetti e i viceprefetti incompetenti diano le dimissioni. Non sono adatti, non amano il loro lavoro e la gente, se ne vadano. Come nell'ultimo film di Wajda, «Il direttore d'orchestra», che adesso a Parigi sta riempiendo le sale. C'è il cattivo direttore, un giovane funzionario della musica, che deve cedere alla felice capacità, all'instancabile maestria del grande direttore da poco rientrato in patria per amore di una donna e del suo Paese. Splende un fragile momento di grazia per l'orchestra polacca della piccola città di provincia dove il film si svolge, prima che l'incomprensione spezzi di nuovo il rapporto tra chi dirige e chi suona. Non sarà che l'orchestra è diventata la metafora regina per capire la realtà sociale europea, all'Est e all'Ovest? Non sarà che «Il direttore d'orchestra» rappresenta simbolicamente per la Polonia quello che «Prova d'orchestra» ha rappresentato (e rappresenta ancora) per l'Italia? Per esempio, la coincidenza tra Wajda e Fellini non è sfuggita in America e un'analisi come quella di Flora Lewis apparsa sull'«Herald Tribune» qualche giorno fa è tutta un sapiente svolgimento della metafora orchestrale per capire due Paesi europei cosi distanti e cosi simili. L'orchestra, dice la Lewis, è l'utopia sociale. Magari, diciamo noi, è soltanto un'immagine poetica della sopravvivenza. Vediamo Fellini. I suoi orchestrali, presi uno ad uno, amano i propri strumenti, sono capaci ai costruirci intorno della retorica corporativa (il violino è il migliore, la viola è sublime). Ma non vogliono suonare insieme, sottostare alle regole, prendere l'avvio da una vacchetta, da un'autorità concordata. Per un momento sembra più gratificante e divertente la cagnara, la dissoluzione delle regole, la divisione dei suonatori in gruppi separati, ognuno gloriosamente solo col suo problema. Poi la famosa palla ai ferro, il maglio che impone con la paura la prospettiva di un'altra autorità, la fine dell'anarchia nella resa senza condizioni. Vediamo Wajda. Il direttore d'orchestra che ritorna alla sua piccola città è portatore di carisma, ma anche di competenza. Dicono gli orchestrali: «Con lui suoniamo volentieri perché lui ci vuole bene». Si tratta di un nuovo rapporto con chi guida, che matura da sè, senza interventi estemi. Infatti basta, nel film, l'iniziativa di importare migliori orchestrali da fuori per compromettere tutti gli sforzi. (Ma non sipario dei russi, Wajda non fa un film politico, racconta una storia sulla responsabilità verso gli altri). Anarchia, tirannia: la sopravvivenza sta in mezzo in un modo poeticamente preciso, ma politicamente tutto da inventare. Ecco il limite della metafora, che spiega, ma non può convincere i suonatori o creare i direttori o fondare l'armonia. Soprattutto quando alla vocazione solistica degli orchestrali si aggiunge la voglia indistinta, da una parte e dall'altra, di cambiare musica. Come sa Fellini, come racconta Wajda. Stefano Reggiani

Luoghi citati: America, Italia, Parigi, Polonia