Londra sonnecchia sul petrolio

Londra sonnecchia sul petrolio L'oro nero del Mare del Nord sta cambiando l'economia della Gran Bretagna Londra sonnecchia sul petrolio C'è chi teme che il greggio facile finisca per nascondere le inefficienze dell'industria - Qualcuno sostiene che stimolerà le esportazioni - L'obiettivo del governo: prolungare l'autosufficienza energetica DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE LONDRA — Tempo fa le colonie, adesso il petrolio. La Gran Bretagna, dicono tutti, ha una fortuna particolare nel trovare le «rendite». Soddisfasiane, visto che c'è l'autosufficienza energetica, ma anche molti problemi visto che il greggio è un Giano bifronte, sorridente da una parte, corrucciato dall'altra. Bisogna innamitutto ricordare che il Mare del Nord, là dove sono trivellati i possi, non è il Medio Oriente. Si calcola, in base ai dati della Bp (British Petroleum), che le riserve accertate del Mare del Nord costituiscano il 3-4% di quelle mondiali, e che negli Anni Ottanta dalle piattaforme qui installate sgorghi oro nero pari al 5-6% dell'intera produsìone petrolifera mondiale. Il Mare del Nord si può dunque mettere a confronto con l'Alaska. Il Medio Oriente è un caso a parte, dal momento che provvede a più della metà del fabbisogno di greggio mondiale, e l'Arabia Saudita, da sola, dà circa un sesto della produsione mondiale (un quinto se si escludono i Paesi comunisti). Il campo «Forties», la più grande riserva di petrolio inglese, fu scoperto dalla Bp nel 1970 e cinque anni dopo cominciava a funzionare fino a soddisfare un quarto del fabbisogno del Regno Unito. Attualmente ci sono, in acque britanniche, quindici giacimenti in funzione e nove in fase di sviluppo. Il giacimento è 'gestito» da un «operatori, una società petrolifera (predominano quelle americane) a capo di un consorsio cui partecipano altri gruppi, con quote minoritarie. Il 51% del greggio estratto va per legge alla Gran Bretagna, che lo acquista a pressi di mercato. Ma sul petrolio gravano le tasse, molto forti. Si calcola che circa l'80% sui profitti (ricavi meno costi) entra nelle casseforti di Londra. Un certo chock l'ha provocato la signora Thatcher quando adottò la linea laborista e aumentò il minimo della «Petroleum Revenue Tax» dal 45 al 60%, riservandosi però una certa manovra sulle «allowances», ossia stigli sconti o privilegi concessi alle singole compagnie. Le proteste si smorsarono a seguito dell'aumento del presso del petrolio: le leggi del mercato vennero in aiuto ai gruppi che fanno esplorasione ed estrazione. Un esempio: la Shell e la Bp, le compagnie più grosse che operano nel Mare del Nord, hanno avuto profitti netti rispettivamente di tre e 1,6 miliardi di sterline. Rimane in ogni caso l'avvertimento al governo: «Non sgozzate la gallina che fa uova d'oro». Qualche calcolo sommario su quanto denaro finisce nelle casse statali di Londra: dal '79 all'84 oltre 46 miliardi di sterline, dall'84 in poi il fisco britannico incamererà circa 14,7 miliardi di sterline l'anno. La rendita petrolifera è influenzata principalmente da quattro fattori: la politica fiscale di Londra, il presso del greggio, il valore della sterlina e il livello delle riserve petrolifere. Fattori tutti incerti, dicono gli esperti La forsa della sterlina e l'abbassamento delle riserve di greggio sono strettamente collegati: più alta è la produsione più robusto è il «pound». Il petrolio, nel suo insieme, è un elemento che condiziona l'intera politica del governo. Bisogna ricordare a questo punto che gli sforsi di Londra sono tesi a mantenere il più a lungo possibile il regime di autosufficienza energetica, e ciò non solo con l'estrazione di petrolio (le previsioni suggeri- scono di parlare di un calo rispetto alle aspettative), ma anche attraverso la ridusione dei consumi Dal 79 all'80 questi infatti sono scesi del 7,8%, tenendo in conto, oltre al petrolio, il carbone, il gas, e l'energia prodotta da centrali idro-elettro-nucleari. La produzione complessiva di energia, sempre dal '79 all'80, è aumentata dell'1,4%. «TI raggiungimento dell'autosufficienza», ci ha spiegato l'ingegner Balestra, direttore dell'Agip britannica, «è quindi derivato dalla diminuzione dei consumi piuttosto che dal raggiungimento degli obietti¬ vi di produzione». Come usare i proventi petroliferi? In Gran Bretagna c'è polemica. Sir Michael Edwardes, presidente della British Leyland, ha dichiarato al congresso dell'imprenditoria britannica: «Se non sanno come usarla è meglio che lascino quella maledetta cosa nera sotto la terra». Due, grosso modo, sono le tesi contrapposte. La prima è di Gordon Richardson, governatore della Banca d'Inghilterra, il quale dice che il reddito nasionale che deriva dal petrolio non può essere usato per pagare gli assegni di disoccupa- sione o comunque per celare le magagne dell'industria inglese (vecchia e poco competitiva). Aggiunge inoltre che gli sforsi finanziari per l'esplorasione del Mare del Nord (circa , 20 miliardi di sterline) hanno salassato le risorse, con un risultato inferiore alle aspettative. Il discorso sarebbe diverso, spiega Richardson, se la Gran Bretagna diventasse esportatore di petrolio. La seconda tesi è quella di John Kay, direttore del settore ricerche dell'istituto di studi fiscali Kay è d'accordo col governatore sul fatto che il petrolio, alzando la sterlina, contribuisce ad appannare il volto dell'industria nazionale, ma, come nel caso norvegese, c'è attualmente la tendenza all'aumento delle esportazioni Se Londra non esporterà petrolio, esporterà però sempre più manufatti e riuscirà a evitare il fantasma di un Paese deindustrializsato, produttore solo di servizi, un ibrido «alla olandese». Riuscirà la Thatcher a scuotere l'assopita industria nazionale, rimediando, grazie al petrolio, ai guai della bilancia commerciale e degli assegni di disoccupazione? Secondo gli ultimi sondaggi gli inglesi credono ancora in Maggie. Pier Mario Fasanotti CONSUMO BRITANNICO DI PETROLIO E PRODUZIONE NAZIONALE 100- I I I I 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980

Persone citate: Gordon Richardson, John Kay, Michael Edwardes, Pier Mario Fasanotti, Richardson, Thatcher