«Vidi Stalin prendersi la Polonia»

«Vidi Stalin prendersi la Polonia» INTERVISTA CON HARRIMAN, TESTIMONE E PROTAGONISTA DEL DOPOGUERRA «Vidi Stalin prendersi la Polonia» «Voleva farne la chiave della sua difesa: aveva fifa dei tedeschi» - «Credeva nella vittoria del comunismo in Europa; sarebbe arrivato a Parigi senza l'intervento di Tramati» - «Sapevo che voleva mettere le mani sul Giappone e la Turchia» «Così violò gli accordi di Yalta» - «Con la Wehrmacht alle porte di Mosca, Stalin mi disse: "Io resto,,» - «Cenai al Cremlino tra il dittatore e De Gaulle» - «Churchill mi confidò: "Se Hitler invadesse l'inferno...,,» - Roosevelt e Marshall W. Averell Harriman ha 90 anni. Figlio di un magnate delle ferrovie, banchiere, fu confidente e amico del presidente Roosevelt, che nel 42 lo inviò ambasciatore nella Russia di Stalin. Nei quattro anni successivi, Harriman incontrò spesso il padrone assoluto dell'Unione Sovietica. Nessuno come lui, probabilmente, è riuscito a sondare i pensieri di un dittatore. Harriman era consapevole che l'Urss aveva un bisogno vitale degli Stati Uniti e che gli era stato assegnato l'incarico di agire a loro nome Slanciato, aristocratico, elegante, gli occhi vivaci e penetranti, Harriman ha una memoria eccezionale. Parla con una voce calma, senza cercare le parole, e risponde senza esitazioni. Rievoca il passato in questa stanza enorme, che sembra più un museo che un salone. Basta alzare gli occhi: alle pareti, quadri di Van Gogh, Gauguin, Dufy, Toulouse-Lautrec. E' la casa d'un gran signore, imbevuto di cultura europea e del pragmatismo dei discendenti dei Padri pellegrini. Incontrò Roosevelt la prima volta a 14 anni: le loro madri erano grandi amiche. Quando il giovane avvocato Roosevelt iniziò la sua carriera politica, scelse il banchiere Harriman come consigliere e confidente: incarico che conservò fino alla morte del presidente. Harriman fu anche consigliere di Truman. Nel 1954, fu eletto governatore dello Stato di New York, per quattro anni. D — Lei è uno degli uomini che hanno preparato e organizzato il mondo del dopoguerra, il mondo in cui viviamo oggi. E' soddisfatto di quella che, in parte, è anche opera sua? R — Il mondo nato dalla seconda guerra mondiale si è sviluppato sotto le pressioni di vari Paesi e molteplici bisogni. I tre grandi, Roosevelt, Stalin e Churchill, ai quali bisogna aggiungere, naturalmente, il generale De Gaulle e altri ancora, hanno svolto un ruolo ben definito. Ma in fin dei conti gli avvenimenti hanno contato di più. C'era una fatalità della storia che non si poteva eludere. D — Come si erano immaginati, Roosevelt e Churchill, il mondo del dopoguerra e la loro cooperazione con l'Urss, dive¬ nuta una grande potenza socialista? Su questi temi lei ha avuto lunghe conversazioni con Roosevelt e Churchill. R — Infatti. Entrambi avevano fondato le proprie speranze sugli ottimi rapportlpersonali che avevano sviluppato durante la guerra. Certo, nessuno di loro si faceva illusioni sulle idee e sugli obiettivi di Stalin. Ma pensavano che, grazie ai mutamenti avvenuti nelPUrss, sarebbe stato possibile raggiungere una buona cooperazione. D — Tra gli europei c'è chi pensa che Roosevelt e Churchill abbiano consegnato l'Europa centrale ai russi, in cambio dei sacrifici sopportati dall'Urss durante la guerra. R — E' una leggenda difficile a morire. La verità è esattamente il contrario. Gli accordi di Yalta affermano «il diritto dei popoli di scegliersi da soli la forma di governo che vogliono». Inoltre era stato deciso che ele- zioni libere si sarebbero tenute in tutti i territori occupati durante la guerra. Stalin ruppe subito questi accordi: ecco la tragedia. E noi presto ci accorgemmo fino a che punto le sue intenzioni erano aggressive e infide. E non solo riguardo all'Europa centrale. Aveva delle mire anche sull'Europa occidentale. D — Crede veramente che Stalin avesse intenzione di impadronirsi di tutta l'Europa? R — Lo dico senza esitazioni. Una volta, in una conversazione a ruota libera, mi parve di capire che egli credesse davvero alla vittoria del comunismo in Europa, dopo la guerra. Ricordo che disse: «Il comunismo si sviluppa nei pozzi neri del capitalismo». Era convinto che le sofferenze, la disoccupazione, la fame e la disperazione degli abitanti dell'Europa in rovina avrebbero inevitabilmente provocato la rivoluzione. Pensava soprattutto alla Francia e all'Italia, dove il partito comunista si era organizzato molto bene durante l'occupazione tedesca, ma aveva molte speranze anche nei comunisti tedeschi. Alla Conferenza di Potsdam andai a salutarlo e gli dissi: «Deve essere molto soddisfatto di trovarsi a Berlino'.». Ma il sorriso mi si gelò sulle labbra vedendo la sua faccia scura, le sopracciglia corrugate. Mi rispose seccamente: «Lo zar Alessandro era arrivato fino a Parigi». Mi fece capire chiaramente di voler arrivare alla capitale francese; sono convinto che avrebbe realizzato questo progetto senza l'intervento del presidente Truman. D — Non sono il primo a affermare che il piano Marshall è nato perché lei era riuscito a scoprire le vere intenzioni di Stalin. Lei telegrafò da Mosca a Washington per comunicare al suo governo che, senza un aiuto americano efficace e immediato, l'Europa intera si sarebbe arresa al comunismo. R — E' vero: sottolineai, in una serie di messaggi, che l'aiuto alimentare era insufficiente e che solo la ricostruzione dell'Europa occidentale poteva evitare gli sconvolgimenti che sembravano sul punto di realizzarsi. La verità è che il generale Marshall è stato il padre del piano che porta il suo nome. Fu un grand'uomo, mi creda. D — Sembrava che Stalin avesse anche mire sul Giappone. Lei ha avuto un ruolo storico nell'impedire, di sua iniziativa, la realizzazione di questo progetto. Si dice che Stalin le abbia chiesto di partecipare all'occupazione del Giappone e che lei abbia categoricamente rifiutato. R — Le cose non sono andate proprio così. La verità è che, la notte precedente la resa del Giappone, Stalin mi disse che voleva che anche un generale russo fosse presente, insieme con Mac Arthur, alla sua capi¬ tolazione. Sapevo che voleva occupare il Giappone. Cercò anche di mettere le'mani su parte della Turchia — un vecchio sogno degli zar, per disporre di uno sbocco sul Mediterraneo —; ma dovette abbandonare il progetto perché i turchi dichiararono che si sarebbero battuti anche da soli, se necessario. E Stalin non voleva una guerra. D'altra parte in Grecia c'era la ribellione del generale comunista Marcos, che fallì soprattutto per la vigorosa resistenza degli inglesi. D — Torniamo alla personalità di Roosevelt, che lei ha conosciuto bene. Su quali basi ritenne possibile una comprensione, se non addirittura una collaborazione, dopo la guerra, tra il mondo capitalista e l'impero comunista? Le rivelò mai nulla, a questo proposito? R — Roosevelt fu un grand'uomo e un grande personaggio storico. Pensava che ci saremmo avvicinati a un'organizzazione economica simile a quella dei socialdemocratici svedesi. E credeva anche che i russi, per effetto della guerra e per naturale evoluzione, avrebbero abbandonato la dittatura: perciò questi due regimi, certo, pensava, molto diversi, avrebbero potuto trovare le basi di una lunga e fruttuosa collaborazione. D — Crede che Stalin fosse sincero durante la guerra? Quando si rese conto, lei, delle sue vere intenzioni? R — Non credo che. in quegli anni difficili, Stalin perdesse il suo tempo a far piani per il dopoguerra. Il dopoguerra era, allora, la sua preoccupazione minore. Quel che desiderava, era l'aiuto massiccio di inglesi e americani. Quando lo incontrai, nel 1942, insieme con Churchill, chiese l'apertura di un secondo fronte. Pretese inoltre un aiuto militare efficace, capace di far diminuire la tremenda pressione dell'esercito tedesco. Era questo a interessarlo, nient'altro. Quando cominciai a parlargli del futuro, credo non si fosse ancora chiarito i suoi scopi. Mi accennò al suo desiderio di avere una «Polonia amica» alle frontiere. D — Qual era la differenza tra le vostre interpretazioni? R — Mi sono accorto che per Stalin Paese «amico» significava in realtà «Paese dominato». Sollecitato dalla mia curiosità, mi rivelò che, secondo lui, la Polonia era un Paese particolarmente importante per la Russia, perché era la tradizionale via per l'invasione dall'Europa. D — Si ricorda di aver ricevuto da Stalin confidenze sulla Germania, quando la vittoria alleata era ormai certa? R — Stalin, le assicuro, aveva una «fifa boia», se così posso esprimermi, dei tedeschi. Anche sconfitti. Aveva un grande rispetto dell'organizzazione e della produzione tedesca. Temeva la possibilità di un nuovo attacco tedesco, in un futuro non troppo lontano. Per questo considerava la Polonia la chiave della sua difesa. D — Lei ha avuto, durante la guerra, incontri memorabili con il generale De Gaulle. R — Ho avuto un grande rispetto per il generale De Gaul- le, dal giorno in cui comparve sulla scena della storia. Emanava una forza, una determinazione, un vigore poco comuni, anche in un'epoca in cui non mancavano le personalità straordinarie. D — 17 presidente Roosevelt ha mai nutrito timori nei confronti del generale? R — Il presidente temeva il nazionalismo di De Gaulle. Ma come lei sa, lo aveva accettato. D — Che opinione aveva Stalin di De Gaulle? R — Ero a Mosca quando il generale De Gaulle vi si recò in visita. Mi pare che fosse il dicembre del '44. Il generale voleva concludere un trattato di reciproca difesa con Stalin. Era molto importante per lui, in quel momento. I comunisti, usciti dall'illegalità, erano forti, in Francia, e lui voleva ottenerne il sostegno. Stalin lo sapeva e voleva che De Gaulle pagasse un prezzo, un prezzo alto. Gli chiese il riconoscimento del «governo di Lublino», nato malgrado l'opposizione del governo polacco a Londra. D — Come mai lei era al corrente di queste richieste? R — Il generale De Gaulle mi onorò delle sue confidenzee così ho avuto l'occasione di esporgli la nostra posizione. Questa era chiara. Gli dissi che cedere alle pressioni di Stalin significava andare contro la volontà del mio governo, che rifiutava di riconoscere questo comitato, un satellite di Mosca. D — Con queste dichiarazioni, lei mise De Gaulle in una situazione estremamente delicata. Come se la cavò? R — La stessa sera, Stalin diede un gran pranzo in onore dell'ospite francese. Il generale sedeva alla sua destra, io alla sua sinistra. Era il mio posto abituale, in quel periodo, senza tener conto del protocollo. Era chiaro che gli Stati Uniti erano il Paese più importante, e mi era stato assegnato il posto di fianco al capo. Durante il pranzo, il generale fu molto riservato perché non aveva ancora raggiunto un accordo. Si era accorto che Stalin cercava di spingerlo in una posizione che non avrebbe potuto accettare. A un certo punto, Stalin si voltò verso di me e, con una certa irritazione, mi disse, con l'aiuto dell'interprete: «Il generale De Gaulle è un uomo molto duro e ostinato'.». Ma è interessante che quell'uomo «duro e ostinato», come lo definì Stalin, abbia costretto il dittatore a capitolare. Penso che fossero le sei del mattino, quando Stalin fece chiamare il generale per fargli firmare un trattato, secondo i desideri del suo ospite. D — Lei ha lavorato anche con Truman. che è stato senza dubbio uno dei più grandi presidenti americani. Basta pensare alla guerra di Corea, al piano Marshall, al ponte aereo per Berlino... R — Aggiunga la creazione della Nato, e soprattutto il quarto punto del suo programma, sulla necessità della mutua assistenza tra nazioni industrializzate. Penso che la storia considererà il periodo di Roosevelt e Truman un'epoca davvero notevole. D — Torniamo a Stalin. Conoscendolo come lei lo conosceva, come ha potuto avere stima per lui? Era possibile provare simpatia per un uomo le cui mani si erano macchiate del sangue di milioni di innocenti? R — Benché conoscessi il suo passato, non potevo non stimarlo per quel che aveva fatto durante la seconda guerra mondiale. La sua determinazione era fuori del normale. Quando l'esercito tedesco era alle porte di Mosca, quando nella capitale russa si udivano i cannoni di Hitler, tutti i consiglieri militari gli dicevano di abbandonare la città prima che cadesse. Lo incontrai, in quel momento, e lui mi disse che sarebbe restato. Mi disse, con estrema gravità: «Se Mosca cade, il cuore dell'Unione Sovietica si spezzerà. Dovremo ritirarci dietro gli Urali. Ma allora non potremo mai più avere un ruolo importante in questa guerra, lo resto». Riferii al mio presidente quel che l'inviato inglese. Lord Beaverbrook, aveva già comunicato a Churchill: «Stalin resisterà'.». Va detto che questo era l'obiettivo principale dei due leaders anglo-americani. Il secondo era vincere la guerra. Vuole sapere che cosa pensavano veramente questi due uomini? Eravamo nel 1941. La Gran Bretagna si era battuta da sola. L'entrata in guerra della Russia era importante per la sua resistenza alla tremenda pressione tedesca. Churchill temeva un'invasione. D'altra parte, Roosevelt sperava che i russi continuassero a battersi. Nonostante noi non fossimo ancora in guerra, Roosevelt era persuaso che, prima o poi, ci saremmo entrati. Sperava di poter contribuire alla guerra solo con forze navali e aeree. Aveva una paura tremenda della guerra campale. Il ricordo delle trincee della prima guerra mondiale, quando era stata sacrificata un'intera generazione di inglesi e francesi, lo terrorizzava. D — Dunque, Roosevelt sperava di fare la guerra senza l'intervento delle forze americane di terra? R — Cercò di evitare in ogni modo che quei ragazzi partissero. Sperava che i russi, con il loro gigantesco esercito, potessero ridurre al minimo la partecipazione delle forze americane di terra. Le cose sono andate diversamente. Ma questa era una delle ragioni per le quali voleva mantenere, a qualsiasi costo, i russi in guerra. D — Roosevelt e Churchill sono stati spesso criticati per quella che fu chiamata ««'«alleanza contro natura». R — Tutto è sempre molto facile a cose fatte. Ci viene rimproverato di «aver permesso alle forze del male di invadere una parte d'Europa». Ma non si può avere che un solo nemico alla volta, e noi, come del resto Churchill, avevamo buone ragioni per sostenere l'Unione Sovietica. D'altronde, Churchill era molto franco quando parlava dei suoi rapporti con l'Urss. Non aveva certo il comunismo nel cuore. Un giorno mi disse: «Se Hitler invadesse l'inferno, troverei certo qualche parola gentile da dire sul diavolo...». Alexandre Szombati Copyright di «Le Monde»e per l'Italia di «La Stampa» De Gaulle visto da Levine Roosevelt, Stalin e Churchill in una caricatura di Levine (Copyright N.Y. Revtew ot Books. Opera Mundi e per ntalia .La Stampa.) Hitler visto da Levine 4. ■ . 'igggff^.l^ : #3 Averell Harriman (a destra) con il presidente Truman, di cui fu consigliere come lo era stato di Roosevelt che, nel 1942, lo aveva inviato come ambasciatore nella Russia di Stalin. Sotto il titolo: Averell Harriman accanto a Nikita Kruscev