La verità su Pétain Traditore o martire?

La verità su Pétain Traditore o martire? IN UN LIBRO DRAMMATICI RETROSCENA La verità su Pétain Traditore o martire? Il mistero di Philippe Pétain, maresciallo di Francia condannato a morte per tradimento — pena tramutata nell'ergastolo dal gen. De Gaulle — continua. Traditore o martire? Bieco collaborazionista o personificazione del sacrifizio di chi si è immolato per salvare la Francia vinta e parzialmente occupata dal nemico? Nessun'altra personalità godeva in Francia, alla vigilia della seconda guerra mondiale, dell'autorità e del prestigio del maresciallo Pétain, l'eroe di Verdun, amato dai soldati di allora perché «avaro di sangue e prodigo di acciaio» nel senso di pretendere che ogni battaglia fosse preceduta da un'adeguata preparazione di fuoco. Soldato anche nell'attraente aspetto fisico, tale da guadagnargli, a quel che si diceva, abbondanti favori da parte del gentil sesso. Quando, agli inizi del 1939, il presidente Daladier avvertendo l'avvicinarsi del temporale, volle coinvolgerlo e lo nominò ambasciatore a Madrid, Leon Blum protestò, perché «il più nobile e il più umano dei nostri soldati non è al suo posto presso il gen. Franco». L'allora col. De Gaulle fu ancora più severo: «Un maresciallo di Francia accettare un tale incarico! Deve essere colpito da vanità senile!». Pétain rispose adattando una frase di Plutarco: «L'onore di servire la Francia è così grande che non riuscirò mai ad esaudirlo». Uno stato d'animo quanto meno nobile, confermato dal fatto che tra lui e il gen. Franco non s'instaurò mai neppure un rapporto di simpatia. Fu questo stesso stato d'animo che indusse Pétain ad accettare, nell'estate del 1940, la successione di Paul Reynaud alla guida di una Francia sconfitta? Forse, e molte altre cose difficili da decifrare, perché l'uomo era segreto, altrettanto e forse più del suo allievo-avversario De Gaulle. A chi lo esortava a trasferirsi con il governo nell'Africa del Nord, egli oppose un'argomentazione lungamente meditata: «Dobbiamo attenderci la resurrezione francese dall'anima del nostro paese, che noi preserveremo rimanendo sul posto, piuttosto che dalla riconquista del nostro territorio da parte degli alleati, in condizioni e con un'attesa impossibili da prevedere. Sono dunque del parere di non lasciare il suolo francese e di accettare la sofferenza che sarà imposta alla patria e ai suoi figli. Il frutto di questa sofferenza sarà la rinascita francese». Oltre a ciò, egli, nutriva la convinzione, di cui non fece mistero, che la Gran Bretagna sarebbe stata sconfitta in poco tempo, comunque prima che gli Stati Uniti fossero in grado di entrare in guerra. Altrettanto convinti erano del resto Weygand, Lavai, Darlan e molti altri. L'operazione armistizio fu per Pétain particolarmente dolorosa. Poco prima che il nuovo ministro degli Esteri, Baudouin, presentasse ai tedeschi, per il tramite della Spagna, la richiesta di armistizio, gli disse: «E'spaventoso... Io che avevo condotto le armate francesi alla vittoria...». Vi è una certa concordanza da parte di tutti coloro che avvicinarono il maresciallo in quei giorni tremendi, nel riconoscergli un senso di missione, uno spirito di espiazione, da lui ritenuti necessari anzi indispensabili per la rigenerazione della Francia, chiamata a pagare gli errori commessi, il pacifismo del Fronte Popolare, la mancata preparazione bellica, la rinuncia alle virtù militari e morali. Ma vi era anche da parte sua una sottovalutazione del carattere «mondiale» della guerra, della minaccia rappresentata dalla dottrina nazista del «nuovo ordine». E meno che meno Pétain era in grado di capire De Gaulle e il suo appello londinese ai francesi perché continuassero la lotta. Non lo capì neppure Weygand, che giudicò il colonnello dissidente degno della fucilazione. Per Pétain vi era anche un altro motivo di rancore. Egli rimproverava a De Gaulle, già suo protetto, di aver pubblicato con il solo suo nome un libro di contenuto militare, scritto secondo il piano che egli, Pétain, gli aveva fornito, e che poi aveva corretto di suo pugno. «Pétain e De Gaulle, un dramma antico. Il maestro e il discepolo. Il padre e il figlio spirituale». Così scrive Raymond Tournoux, in un libro uscito in questi giorni con il ti- tolo Pétain et la France. La seconde guerre mondiale (Paris, Plon). L'autore, già noto per altri importanti libri sul generale De Gaulle e su questa fase drammatica della storia francese, ha condensato in questo nuovo lavoro di circa 600 pagine i frutti di una ricerca condotta negli archivi d'Europa, Stati Uniti, Canada e Giappone, completati da colloqui con i protagonisti superstiti. Libro quindi di storia, e nello stesso tempo raccolta di testimonianze preziose per lo storico. La personalità di Pétain sovrasta, come un'icona, gli avvenimenti del suo tempo: viso di marmo, impenetrabile, decisioni improvvise e contrastanti, atteggiamenti moralistici accompagnati da una sostanziale ambiguità di fondo. ** Perché Pétain scelse come principale suo collaboratore, anzi come delfino, Pierre Lavai, un uomo tenuto in sospetto da tutti? Per ingraziarsi Germania e Italia? Ma allora perché rifiutargli il portafoglio degli Esteri? Ai suoi più vicini collaboratori non nascose mai il suo disprezzo per questo «Saracino», che «non sente i valori spirituali», per questo «petit sale auvergnat» che durante la prima guerra si era fatto riformare e il cui nome era stato incluso in un famoso elenco di sospetti. Lavai, poi, non amava il maresciallo. E a chi gli faceva osservare che l'avanzata età avrebbe impedito a Pétain di lavorare rispose: «Non presiede né decide. Egli non ha senso politico né esperienza. Sarò io a governare!». E qui Lavai si sbagliava di grosso. Pétain non accettò mai, nonostante le molte pressioni, di muovere guerra agli inglesi in Africa, preludio del rovesciamento delle alleanze. E quando Lavai cercò d'imporgli la collaborazione militare con i tedeschi, lo estromise dal governo e lo fece arrestare. Fu allora che a Berlino si accorsero di Pétain e lo soprannominarono «der alte Fuchs», la vecchia volpe. Pétain aveva dunque una sua politica: consisteva nell'ottenere tutto il possibile dai vincitori senza dover compromettere i suoi rapporti con gli alleati. Una politica «flottante», come fu definita, cioè legata ai flussi e riflussi della guerra, e che, per giunta, doveva tener conto della forza schiacciante di Hitler, dei prigionieri francesi che erano degli ostaggi nelle sue mani, del vettovagliamento della popolazione francese che dipendeva dalla Germania. Se è vero che Pétain fu costretto ad accettare fatti che i tedeschi avrebbero imposto in ogni caso: la nomina dell'ammiraglio Darlan a suo delfino, quindi il rientro di Lavai alla testa del governo, infine, cosa gravissi¬ ma contro la quale tentò inizialmente di opporsi, la deportazione degli ebrei, ecc. è anche vero che egli indirizzò alle autorità germaniche oltre cento note di protesta contro il loro comportamento. Un episodio tipico ebbe luogo in occasione dello sbarco alleato nell'Africa Settentrionale francese. Il vecchio maresciallo consegnò una vibrata nota di protesta all'incaricato di affari statunitense, in cui si diceva che le truppe francesi, in caso di sbarco, avrebbero risposto con il fuoco anche contro gli americani. Ma lo fece in un certo qual modo, canticchiando, da lasciare pochi dubbi nell'interlocutore sulle sue reali intenzioni. In effetti l'amm. Darlan, che si trovava ad Algeri, negoziò il cessate il fuoco e passò nel campo degli alleati «a nome del maresciallo, prigioniero dei tedeschi». Fu quello, secondo Tournoux, il momento decisivo nel destino di Pétain perché «a dir la verità, Pétain raccoglieva tra le forze armate un seguito più grande di quello di De Gaulle». I suoi collaboratori lo esortano a fuggire in aereo ad Algeri, e a proseguire di là la lotta a fianco degli alleati. Ormai sembrava certo che la Germania avesse perduto la guerra. L'aereo era pronto, ma il maresciallo esitava: «Se parto metteranno al mio posto un gauleter... ho promesso ai francesi di rimanere al loro fianco qualunque cosa accada... E poi mi dicono che l'aereo e l'altitudine sono controindicati alla mia età!». Pétain aveva 86 anni e, secondo Baudouin, era diventato «gagà». Finiva con il condividere l'opinione di chi gli parlava per ultimo. E l'ultimo era sempre Lavai. Al termine di una indagine senza precedenti per ampiezza di opere consultate, per ricerche di archivio, per audizione di testimoni, ecc., Tournoux preferisce lasciare al lettore di trarre la conclusióne. Ma poi, a ragione, ricorda quella cui è giunto lo storico americano William Langer, dopo aver consultato gli archivi del Dipartimento di Stato c dopo aver studiato parola per parola il voluminoso processo che si concluse con la condanna a morte del maresciallo: «Pétain rimane un enigma. Tutto ciò che si può dire con imparzialità è che egli si sforzò di servire la Francia secondo le sue idee». Enrico Serra Pétain visto da Levine (Copyright N.Y. Revlew ot Books. Opera Mundi e per l'Italia -La Stampa»)