Il regista ama il potere non il teatro

Il regista ama il potere non il teatro può portarti in teatro un po' di tutto — dalla squadracela, ai carabinieri, alle bombe — e allontanare le sacramentali sovvenzioni dello Stato o della Regione. Insomma: o censura o autocensura. Ma gli autori sono poi così coraggiosi? Saprebbero approfittare di una maggiore libertà e autorità? Non si metterebbero a scrivere l'Antigone di Porta Capuana (in umoroso e folklorico ambiente secentesco, con intenti tanto, ma tanto progressisti) ricacciando indietro la tentazione di raccontare la storia di qualche atto di terrorismo, di qualche scandalo statale? La richiesta dei drammaturghi riuniti a Budapest si articola cosi: a) un'organizzazione internazionale di scrittori di teatro per la difesa della loro dignità professionale; b) nessuna sovvenzione dello Stato a chi non dia al rìschio della «novità» la precedenza sul museo o sull'evasione; c) i diritti delle opere di dominio pubblico vadano a cadere realmente in dominio pubblico, cioè siano utilizzati a favore del teatro nuovo, salva l'aliquota spettante alla traduzione: d) lo studio della drammaturgia abbia un senso pratico e miri a fare del drammaturgo «anche» un regista; più una proposta che possiamo trascurare (sul prezzo delle poltrone) perché riguarda Teatri di Stato, d'un tipo che in Italia non esiste. Sui punti «a», «b». «e», secondo noi. non ci piove (come suol dirsi). Ma il più importante è il punto «d» perché riguarda il concetto stesso di drammaturgia e di regia. Allo stato attuale delle cose, autore e regista sono fratelli nell'irresponsabilità: possono anche squagliarsela, la sera della prima, lasciando soli l'attore e lo spettatore. Ma allora non saranno, questi due, i veri «indispensabili»? Tutto il discorso va fatto partendo da loro. Ruggero Jacobbi « Idrammaturghi di tutto il mondo sono arrabbiati». Cosi comincia un documento diramato dal convegno internazionale dell'ITI (Budapest, dicembre 1980) a conclusione dei lavori d'una commissione presieduta da Arnold Wesker e comprendente autori dell'Est e dell'Ovest, fra cui il nostro Nicolaj, costituitasi al congresso di Sofia (1979). «Essi hanno capito che i loro problemi sono comuni». Davvero? A Varsavia come a New York, a Francoforte come a Roma? Quei .problemi» secondo il documento, sono quattro: l'esclusione dello scrittore dalle istituzioni teatrali, dal loro livello decisionale: la falsificazione dei testi operata dai registi in nome di poetiche o ideologie personali; il predominio dei classici nei cartelloni, sia perché il classico essendo morto «non protesta» sia perché dà prestigio culturale al regista, che oltretutto si appropria del diritto d'autore; la crescente impossibilita, per il drammaturgo, di fare del proprio lavoro una vera professione, normalmente redditizia. Come si vede, la polemica ha un doppio bersaglio. Da una parte è un attacco dei vivi ai morti: meno classici, maggiore attenzione al mondo d'oggi e a chi lo esprime in forma non indiretta. Da un altro verso, è polemica fra due professioni: Io scrittore contro il regista, che — nato come interprete — ha finito sempre più per presentarsi come inventore, come creatore. Il documento ricorda che il mestiere di regista ha solo cent'anni (affermazione discutibile) e che in questo non lungo tempo ha sviluppato una brama insaziabile di potere, conquistandolo palmo a palmo. Ma sarebbe facile dire che furono gli autori a salutare, a suo tempo, l'apparizione di questo mediatore come una garanzia contro lo strapotere degli attorimattatori (che poi erano, allora, anche registi). Al- La rabbia dei drammaturghi Il regista ama il potere non il teatro trettanto facile sarà dire che all'origine di tutto ciò sta la divisione capitalistica del lavoro, che fece del. l'autore uno specialista «letterario» e del regista un traduttore «intellettuale», tutti e due incaricati di detronizzare la gente «di palcoscenico»; e forse la soluzione del caso sta in un processo storico, già in atto, che rifaccia e di chi scrive e di chi mette in scena due «uomini di teatro» e possibilmente un uomo solo. Costui, nelle grandi epoche unitarie, fu prima attore, non dimentichiamolo; Shakespeare e Molière insegnino (ma anche Eduardo e Po sono nel medesimo caso). Certo i drammaturghi hanno le loro ragioni, enunciate con viva esperienza professionale nella dichiarazione di Budapest: effettivamente l'estetismo di troppi registi è non solo un fenomeno esibizionistico (o copre squallidi interessi) ma costituisce un alibi contro l'attualità, contro la sua presenza contundente, trasformatrice perpetua di linguaggi (sociali prima che scenici: mentre il regista estetizzante è un nostalgico, preferisce «citare» linguaggi notorii a seguire la concreta vicenda delle parole d'azione, di passione e, perché no?, di classe). Qui. davvero, i problemi sono «comuni»: perché se il regista sovietico mette in scena Schiller al fine di coprire i suoi indiretti e spuntati strali contro la situazione del momento, il regista italiano preferisce il dramma shakespeariano da rendere aggressivo contro ogni forma di «potere» (il che è infinitamente generico) al testo attuale che

Persone citate: Arnold Wesker, Capuana, Nicolaj, Ruggero Jacobbi, Schiller, Shakespeare

Luoghi citati: Budapest, Francoforte, Italia, New York, Roma, Varsavia