Un po' di illuminismo e tanti pettegolezzi al caffè dei Verri

Un po' di illuminismo e tanti pettegolezzi al caffè dei Verri Epistolario Un po' di illuminismo e tanti pettegolezzi al caffè dei Verri QUEST'ESTATE in Francia c'è stato un bellissimo processo per sfruttamento della prostituzione. Gli imputati dissero frasi memorabili contro la polizia e la magistratura che pretendevano vietargli «il diritto di fare il loro mestiere». Qualche commentatore, mettendo le cose in grande, rispolverò una frase famosa: «Tutta colpa di Rousseau». Nel nostro piccolo, vediamo qui da noi certa gente aver oggi un tale orrore delle pene da dimenticare i delitti; e forse davvero il concetto di delitto è in crisi. Cosa dovremmo dire? «Tutta colpa di Beccaria»? Ma chi era Cesare Beccaria? Era almeno un piccolo Rousseau? La domanda, naturalmente, ha poco senso. Beccaria fu l'autore di un libretto, Dei delitti e delle pene, che ebbe un discreto successo in Europa tra il 1764 e la Rivoluzione, perché diceva in modo opportuno, nel momento opportuno, certe cose. Merito massimo, dire nel modo e momento opportuno cose nient'affatto nuove, già dette e ridette dai filosofi francesi. Un'edizione curata da Franco Venturi (Einaudi. 1965) racconta tutta questa storia, fino agli echi che ebbe in Russia. Cento pagine di Beccaria, seicento pagine di storia e documenti. Non c'è niente da aggiungere. Le curiosità laterali, sul Beccaria-uomo, sono le solite. Per citare un'altra vecchia frase, «nessuno è eroe per il proprio cameriere», e i camerieri peggiori sono gli amici spiritosi. Cesare Beccaria ebbe due amici spiritosi, Pietro e Alessandro Verri. Dalle loro lettere Beccaria esce distrutto Non è nemmeno un piccolissimo Rousseau. E' un plagiario, un tonto, un vile. Chi si diverte a questi rovesci della medaglia legge con estrema avidità e piacere il Viaggio a Parigi e a Londra, carteggio di Pietro e Alessandro Verri per l'anno 1766-1767, recentemente ripubblicato dall'editore Adelphi. Pietro e Alessandro Verri sono due personaggi dell'ultimo Settecento milanese. Vanno letti in chiave locale. Diceva il filosofo Antonio Banfi (1886-1957): «Il manzonismo letterario di moda l'hanno inventato i critici meridionali: il Manzoni per noi è lo specchio e non chiaro del tutto di un nostro profondo problema...». Fatte le debite proporzioni, più che mai i Verri non sono persone che possano circolare tanto fuori dalla cerchia dei Navigli. Furono dei provinciali, di una precisa specie di provincialismo inconsapevole. Nota bene, andavano come provinciali a Parigi e a Londra, non a Vienna come farebbero supporre le recenti manifestazioni sulla Lombardia di Maria Teresa In breve, i due fratelli Verri, fra il 1766 e il 1797, per più di trent'anni, si scrissero. L'uno sempre da Milano, l'altro da Parigi e da Londra per i primi mesi, da Roma negli anni successivi. Migliaia di lettere. Quelle dal '66 all'82 furono pubblicate in vari modi, a varie riprese, in anni lontani. Bisogna leggersele in biblioteca. Introvabili anche in antiquariato. Quelle dal 1782 al 1797 sono ancora quasi tutte inedite. In una veste come questa dell'editore Adelphi, se l'edizione fosse completata, verremmo ad avere a spanne una quindicina o una ventina di volumi. Se il volume d'oggi, relativo al 1766-07 (ricomincia tutto daccapo, lasciando gli inediti nell'inedito) sia da intendere come prima pietra di un tale monumento, non è detto. Questo monumento (o frammento) come è costruito? Coi criteri più classici della filologia, senza nulla concedere a quelle possibilità di lettura libera, curiosa, stravagante, che invece sembra gradita a vari lettori e recensori. Il curatore dell'e¬ dizione Adelphi, Gianmarco Gaspari, ha come interlocutori non questi lettori e questi recensori d'oggi, bensì i curatori che l'hanno preceduto in anni lontani. Egli sottolinea con giusta fierezza i loro molti errori di trascrizione, le lacune dei loro indici analitici, e soprattutto sbandiera una decina di righe inedite: che nelle edizioni precedenti erano state omesse per ragioni di pudore. Quella decina di righe, sulla prostituzione (rieccoci) londinese, non sembrano tanto importanti, a certi lettori, né per l'immagine dei Verri né per l'immagine della Londra di Hogarth. Ma la filologia ha leggi e misure di merito sue, che vanno rispettate, nel suo territorio. Che Gianmarco Gaspari non si sia preoccupato di parlare a certi lettori si vede per esempio anche da come ha scritto certe note. Parla del fratello minore dei Verri, Giovanni, e accenna al suo «troppo chiacchierato amore per Giulia Beccaria». Punto e basta. Perché, si chiederanno certi lettori, «troppo chiacchierato»? In che senso le chiacchiere furono 'troppe»? E di che «chiacchiere» si trattò? Il fatto è che da quell'amore nacque un bambino, battezzato poi col nome di (rieccoci) Alessandro Manzoni. Fu Pietro Verri a trovare in fretta un marito compiacente, un povero gentiluomo lecchese, per la scostumata figlia del vecchio amico-nemico Cesare Beccaria. In fondo, la cosa più importante che fecero il Beccaria e i Verri (Pietro, Giovanni) fu di aver procreato e sistemato anagraficamente un grande scrittore. Il curatore dell'edizione Adelphi, Gianmarco Gaspari, ha voluto negare queste «chiacchiere» al lettore per un senso di noia? Perché gli è sembrato che in questo carteggio settecentesco di chiacchiere e pettegolezzi ce ne fossero già troppi? O ha agito sotterraneamente anche in lui quello stesso «pudore» che rinfaccia oltraggiosamente ai curatori delle edizioni precedenti? Giampaolo Oossena Viaggio a Parigi e a Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. Adelphi, XII - 806 pagine, 40.000 lire. Il quadro che fu commissionato da Pietro Verri al pittore A. Perego nel 1766, in ricordo della cosiddetta Accademia dei Pugni. 1 personaggi sono: (da sinistra) l'abate Longo (di spalle), Alessandro Verri (seduto, scrive), Giambattista Biffi (in piedi), Cesare Beccaria (legge), Luigi Lambertenghi e Pietro Verri (giocano a tric-trac), Giuseppe Visconti di Suinicolo