Oggi faccio la spesa a Mosca di Fabio Galvano

Oggi faccio la spesa a Mosca QUESTIONE ALIMENTARE E SQUILIBRI DEL MERCATO SOVIETICO Oggi faccio la spesa a Mosca MOSCA — In certe giornate le vie di Mosca sono un carosello di camion con la scritta «Produkti», cioè alimentari. Ma non si capisce bene dove vadano, perché i negozi che sfoggiano quella stessa insegna il più delle volte sono deserti alimentari, con gli scaffali semivuoti. Da dicembre sono ancora più vuoti, e non se ne capisce bene la ragione: anche i negozi per stranieri, da sempre i meglio forniti perché rappresentano un costante introito di valuta pregiata, sono entrati in crisi un po' prima di Natale e ne stanno appena uscendo in questi giorni, con la ricomparsa di carne buona e di frutti che non fossero le solite mele. Ma l'argomento è tabù: solo gli stranieri ne parlano, con tanti punti interrogativi. Gli amici russi ammettono sottovoce le carenze e le autorità le negano. L'ultimo numero del settimanale «Tempi nuovi» ha addirittura sentito il dovere di intervenire con rigore per dissipare qualsiasi dubbio, e ha definito «infondate» le affermazioni della «propaganda occidentale» secondo le quali vi sarebbe nel paese un'insufficienza alimentare. E' andato oltre, pubblicando una serie di statistiche della Fao (l'organismo delle Nazioni Unite per l'agricoltura e i prodotti alimentari) dalle quali risulta che i cittadini dell'URSS consumano ogni giorno più calorie di quelli dei Paesi occidentali. Vediamole. Se nel mondo il consumo pro-capite di calorie è di 2706 al giorno e in Europa di 3806, risulta che nell'Urss la cifra sale a 3913. Sempre secondo le statistiche Fao, fatto pari a 100 l'indice dì disponibilità di prodotti alimentari nel perìodo 1969-71, esso era salito dieci anni dopo a 106 nella media mondiale, a 112 nell'America del Nord e a 114 nell'Unione Sovietica. E' vero che le statistiche possono dire e nascondere tutto: quelle della Fao sono lo specchio di un benessere e di una disponibilità alimen¬ tare che chiunque viva a Mosca — sovietico o straniero — trova difficile da accettare. E lasciano comunque senza risposta una serie di domande. Perché Breznev, andando apparentemente controcorrente alle altre voci del vertice sovietico, ha ammesso nel suo messaggio radiotelevisivo di Capodanno che esiste in Urss un «problema alimentare»? Perché nella bozza del nuovo piano quinquennale, che sarà discusso al 26° congresso del Pcus in programma il mese prossimo, l'accento è soprattutto sulla necessità di migliorare la disponibilità dei beni di consumo e di affrontare senza indugio un'altra «battaglia agricola»? Perché, se tutto va bene, il giornale «Sozialisticheskaja Industrija» sente il bisogno di pubblicare dati ufficiali secondo i quali la produzione di carne (56 chili pro-capite l'anno) è diminuita del 5 per cento nel 1980, e quella di burro e di olio del 4 per cento? Viene la tentazione di attribuire le statistiche della Fao all'apporto calorìfico dei fiumi di vodka che si versano in questo Paese. Ma tentazione resta, perché affermarlo sarebbe ingiustamente severo e anche perché, alla resa dei conti, bisogna ammettere che in Urss nessuno muore di fame. Anzi, i russi sembrano per lo più ben pasciuti, una necessità per affrontare i climi di qui. Se manca la carne ci sono le patate; se uva, banane, pesche, albicocche, pomodori e insalata compaiono nei negozi due volte l'anno, non mancano invece cavoli e mele. Grappolo d'uva Di fatto la critica alla disponibilità alimentare in Urss dovrebbe essere semmai qualitativa e non quantitativa: la mancanza di certi generi colpisce noi occidentali più che i russi, da sempre abituati ad arrangiarsi con quello che c'è, a fare code di ore quando si sparge la voce che in un ne¬ gozio è arrivata una partita di un prodotto deficitario (ho visto gente aspettare due ore sotto la neve per acquistare un grappolo d'uva in un negozio della Kalinina), ad affrontare lunghi viaggi in treno e in autobus per venire nella capitale e acquistare quei prodotti che scarseggiano ancora di più nelle anonime cittadine della campagna russa. A confondere il quadro c'è poi il curioso fenomeno degli acquisti diretti: molte fabbriche e uffici offrono ai dipendenti la possibilità di fare (tutti i giorni, una volta la settimana, una volta il mese, dipende dai casi) un'ordinazione attraverso la direzione e ritirare gli acquisti la sera, prima di tornare a casa. Mi raccontava un amico russo che in questo modo egli riesce a eliminare quasi completamente la dipendenza dai negozi, e sovente ottiene generi che là neppure si vedono. Che cosa si possa acquistare in questo modo varia grandemente, secondo onnipresenti scale gerarchiche. Un operaio potrà avere carne, burro e patate, ma un funzionario di partito, sia pure ai gradini più bassi, potrà accedere a una serie di beni di consumo quasi paragonabile a quelli che gli stranieri possono acquistare nei negozi in valuta pregiata e man mano che si sale nella scala gerarchica si scopre la disponibilità di generi che anche noi occidentali consideriamo «di lusso». C'è un'altra piaga, che può spiegare in parte gli scaffali vuoti nei negozi, ed è la borsa nera. Pare altissimo, e gli stessi quotidiani sovietici si sono impegnati di recente in una sorta di campagna moralizzatrice, il numero dei direttori e degli impiegati nei magazzini e nei negozi che fanno «scomparire» i generi più ricercati, per venderli — a prezzi maggiorati, s'intende — ad amici e conoscenti o a chiunque abbia il rublo facile e sia disposto a pagare il doppio o anche il triplo del prezzo ufficiale per avere certi prodotti. Come si vede, il mercato alimentare sovietico è un insieme di contraddizioni, un labirinto dal quale è difficile uscire. Riflette, abbastanza fedelmente, i problemi che assillano altri campi della produzione di beni di consumo. Un anno fa Breznev, in un suo discorso, attaccò duramente undici ministri per la cattiva conduzione e l'inefficienza dei settori affidati loro, che non riuscivano a produrre in quantità sufficiente neppure prodotti di base come sapone, filo per cucire e dentifricio. Chiunque viva a Mosca sa quanto ciò sia vero. Soltanto dopo avere visto code di ore per acquistare stivali — qui una necessità — o carta igienica, pentole o dolciumi, si può comprendere il vero dramma di una delle due grandi potenze mondiali, che ha sacrificato agli armamenti e all'industria pesante il benessere spicciolo della popolazione. Una follia Venendo a Mosca, meno di tre mesi fa, mi ero ripromesso di non adottare certe abitudini della colonia occidentale, come gli acquisti a Copenaghen e a Helsinki di ogni genere, dai televisori ai detersivi, dall'insalata fresca (in 24 ore arriva per treno dalla capitale finlandese) alle lampadine. Dopo un Natale spartano, ho ceduto. Ma i russi non hanno questa possibilità. L'unica loro valvola di sicurezza è il rinok, il mercato kolkosiano dove 1 contadini vengono anche da centinaia di chilometri per vendere i prodotti dei loro piccoli appezzamenti privati, e dove i prezzi vanno alle stelle. Ieri i pomodori costavano 17 mila lire il chilo, gli spinaci 16 mila, la carne era a prezzi italiani (ma gli stipendi qui sono la metà dei nostri). Una follia fare certi acquisti? Può darsi. Ma anche gli spinaci, dopo tre mesi di astinenza, assumono una certa importanza. Ne ho comprati tre etti, sarà una festa. Fabio Galvano

Persone citate: Breznev, Del Mercato