Il pericolo di essere troppo celebri

Il pericolo di essere troppo celebri CONTRADDIZIONI DEI «VIP» NELLA SOCIETÀ' DI MASSA AMERICANA Il pericolo di essere troppo celebri Dal tragico caso di Lennon alla ricerca di «privacy» di Woody Alien - Dice un mago della tv: «Non lamentarti dei fotografi. Se ci sono, ci guadagnano loro, ma ci guadagni anche tu» - L'esempio di Lina Wertmùller: come indurre la gente a pensare invece che a distendersi come un tappeto ai piedi della persona famosa - Quali colpe hanno i «mass media» NEW YORK — Quando sono giunte sui tavoli dei giornali e delle stazioni televisive le prime fotografie del corpo sema vita di John Lennon, sotto il cavernoso portone della Dakota House, un minuto o due dopo il delitto, pochi hanno ricordato la scena di «Stardust», l'ultimo film di Woody Alien. Alien, che nel film è «quasi» se stesso, mostra che il triste destino della celebrità è di essere continuamente circondato da una folla affamata che vuole vedere e toccare la persona celebre, stargli per un istante vicino, entrare nell' inquadratura della stessa fotografia. In una scena crepuscolare, di gusto e ambientazione felliniana, Woody Alien aggiunge, con inconscia intuizione profetica, un brevissimo terrificante episodio. Un uomo si fa avanti, il viso serio e impassibile, e fra il brusio di ammirazione di tutti dice, con voce lenta e chiara: «Ti ammiro. Ti amo. Perciò ti uccido». E con un solo colpo di rivoltella abbatte il regista «celebre». Perché, fra le tante tragedie che sconvolgono il mondo, quel delitto (o l'incubo di quel delitto) può essere soltanto «americano»? Perché in questo paese i messi di comunicasione di massa hanno creato un fenomeno, detto «celebrity», che non ha confronti nel mondo. Come l'eroe popolare dei paesi socialisti, la «celebrity» è unica e irraggiungibile. Ma l'America è un paese di libera concorrensa, perciò la «celebrity» è in continua competisione con altre, ce ne sono tante. E già questo causa tensione. Come nelle repubbliche popolari (la Cina, Cuba, il Terso Mondo) la «celebrità» è esposta a cura dei servisi pubblici. Una volta che sei «celebrity» pensano i servisi televisivi e giornali- stici a esporti al popolo, la macchina inesorabile funsiona da sola. Ma poiché il mercato è mercato, non puoi concederti il lusso di perdere il contatto con le masse. Fidei Castro per mantenere forte la sua celebre immagine deve sobbarcarsi un discorso di dodici ore e messo in un solo giorno (è accaduto nell'ultimo congresso del suo partito, con disperasione di quell'intera repubblica). Dustin Hoffman o Diane Keaton devono essere al posto giusto, nell'ora giusta, e poi fingere fastidio per il fatto che ci siano i fotografi. Come il simbolo religioso, la «celebrity» suggerisce un clima di partecipazione, di comunione. Di qui il desiderio di essere presenti, di esse- re visti accanto, di riuscire a toccare, primitive imitazioni del rito della comunione. Difficile dire in che modo e in che punto nasce la «celebrity». Si può però verificare il punto d'arrivo e risalire all'indietro: il Papa, Woody Alien, Warren Beatty. Sophia Loren, il povero John Lennon, qualunque Rolling Stones, Ted Kennedy, Cassius Clay, John Travolta (la lista, naturalmente è infinitamente più lunga) sono «celebrities». Che uno impartisca la benedizione e un altro sia un professionista dei pugni conta ben poco. Che cosa dunque li fa uguali? Qualcosa nella personalità, certo. Non qualunque Papa, ma Wojtyla è divenuto «celebrity» in Usa, e non qualunque pugile ma Cassius Clay/Muhammad Ali. In più ci vuole un elemento di simbolo, un dato di effettivo successo. Poi l'ingresso nel «club». Questo è il punto che accomuna Papa Wojtyla e John Travolta. Una volta varcato il cancello sei una «celebrity». Da quando ha vinto il Nobel per la pace lo sarebbe persino Madre Teresa, la suora che aiuta gli indiani più disperati «a morire in pace» a Calcutta. Se lo volesse. Dunque c'è anche un elemento soggettivo, di scelta? C'è. Madre Teresa non sta al gioco. Viene a New York e nessuno, ma proprio nessuno riesce a saperlo. «Fotografi e telecamere ci sono quando ci devono essere», è la risposta secca di quel mago del mezzo televisivo che è William Paley. celebrità lui stesso, creatore e padrone della rete televisiva CBS. La tesi è: «I fotografi non vengono da soli. Dunque non lamentarti. Se ci sono, ci guadagnano loro ma ci guadagni anche tu. Nessuno ha mai patito del morbo della celebrità senza avere fatto di tutto per contrarlo». Però è un morbo. Il dato curioso, nel film di Woody Alien, sembra essere un continuo reclamo di «privacy». Strano, per individui la cui esistensa dipende dall'essere in mostra. D'altra parte una ragione c'è. L'aveva spiegata una volta Truman Capote: «Diventare celebri è come diventare ricchi. Difficilissimo. Poi però, uno si dimentica, pensa di essere nato ricco, diventa aristocraticamente intollerante verso le incursioni nella sua vita». Dunque anche verso telecamere e fotografi, che sono i donatori di sangue delle «celebrities» senza cui giungerebbe una morte anemica, tipo Dracula. Eppure, suggerisce il film di Woody Alien, e insegna la storia di Lennon, di «celebrity» si muore. O almeno è una professione pericolosa. Abbiamo detto che questa parte del problema è soltanto americana. Vediamo perché, vediamo come. Confrontiamo, per esempio, due celebrità che hanno avuto aspetti di vita e di successo singolarmente simili, Woody Alien e Lina Wertmùller. Tutti e due hanno portato il segno di una originalità profonda. Tutti e due restano, per lo stile e il modo di raccontare, «unici». Si dice «alla Woody Alien» o «alla Wertmùller» per indicare un tratto che viene frequentemente imitato ma la cui origine si vede bene, e che ha stabilito — come succede agli autori veramente dotati — un nuovo modo di vedere le cose, di concepire la realtà, il dramma e lo scherso. Tutti e due mostrano, sulla scena pubblica in cui abitano, una certa solitudine. Da un lato è il riflesso di una distansa, che essi stessi hanno stabilito, dal lavoro degli altri (presentandosi, in modo personale e quasi sensa debiti col passato). Dall'altro si intravede un certo disagio degli altri — specialmente altre «celebrities» — verso l'evidente «grinta» di questi autori. Personalità simili e destini simili, dunque, tanto che è nota la simpatia professionale che l'uno prova per l'altra. Ma il fondo sociale, l'ambiente, la città, il territorio dei «media» nei quali i due personaggi si muovono sono diversi. La folla concitata che in «Stardust» circonda il celebre regista Bates/Woody Alien non fa che dire frasi sconnesse di adorazione, in un disperato tentativo di avvicinarsi all'idolo, di appartenere all'idolo, di essere in «comunione» (in un senso quasi religioso, dunque malato) con l'idolo, un desiderio che si fa progressivamente più intenso, più cupo, fino a diventare un bisogno di consumazione di fronte all'idolo, un vero e proprio desiderio di morte. A Woody Alien i critici hanno rimproverato di essere stato «cattivo» — nel film «Stardust»—con la folla che lo adora, ne ha fatto, ne sostiene il mito. Non si sono domandali pe/Cìié questo rimprovero — che tradisce una genuina paura — non si potrebbe fare a Fellini (con cui Woody Alien ha certo un debito di stile in quest'ultimo film) e alla Wertmùller, che molti intellettuali di cinema in Usa considerano il personaggio «corrispondente» a un creativo geniale e solitario come è appunto Woody Alien. Chi conosce culturalmente l'Italia potrebbe rispondere che, fra tante deviazioni, aberrazioni e problemi locali, la «folla» non ha tendenza a perdere la testa per la «celebrity» e la «celebrity» — forse per antiche ragioni di storia, di civiltà, di sano scetticismo e utile senso dell'umorismo — raramente perde il suo sangue freddo. Si sono visti dibattiti e situazioni pubbliche in cui la Wertmùller (per rimanere legati a questo utile esempio) prontamente devia la battuta dalla situazione personale a fatti generali, spesso di natura politica. Ricordo bene quanto questo «trucco» (che poi non è trucco, è l'espressione di una persuasione sincera) ha funzionato bene in America, quando la regista italiana stava raccogliendo l'immen¬ so successo di «Mimi metallurgico», di «Amore e anarchia», di «Tutto a posto, niente in ordine». Se si immagina il rapporto fra «celebrity» e folla come una delicata partita a scacchi, in cui si deve vincere sensa offendere o alienare l'antagonista, la «mossa» era questa: sviare il diluvio di ammirazioni e di lodi personali proponendo un argomento «controverso» e di natura politica. Il risultato è sempre stato ottimo perché la «controversia» induce la gente a pensare invece che a distendersi come un tappeto sotto i piedi della persona famosa. E qui veniamo all'altra differenza, l'altro ingrediente, tipico e pericoloso, del modo in cui si forma e si adora la «celebrity» americana. I mezzi di comunicazione di massa — grandi giornali, grandi televisioni e specialisti di pettegolezzi mondani —esigono che nell'immagine della persona celebre nulla, assolutamente, nulla, sia «controverso», disturbi cioè in qualche modo il fanatico bisogno di identità fra la folla e il suo idolo. Il punto è delicato. Più l'idolo manca di spigoli, cioè di identificazione storica e dunque anche implicitamente politica, più l'adorazione cresce. Più cresce e più diventa un mare fuori controllo. La follia si annida facilmente in un clima in cui la «celebrità» è coltivata come un bene assoluto, non relativo ai tratti, al carattere e alle scelte di una persona vera. Nello stesso tempo i media possono essere accusati di un altro danno, quando sono universali e potenti come in America: da un lato esaltano molto oltre la realtà le dimensioni dei personaggi «famosi», dall'altro abbassano il senso d'identità della folla (cioè dell'immensa aggregazione di spettatori) spingendoli inconsciamente a diventare membri di un culto. Tutti i membri dei culti, come ha mostrato la sinistra vicenda di Jim Jones in Guayana, sono in pericolo per la propria salute mentale, e sono fonte di pericolo per la reciproca integrità fisica. La potenza dei media forma cioè una smisurata ameba fatta di piccole identità impastate dentro una valanga di adorazione collettiva. Qualche volta, in un gesto scomposto di esaltazione (che uno psichiatra potrebbe anche interpretare come un tentativo goffo e brutale di «liberazione») nasce un comportamento aberrante che può diventare delitto. Woody Alien, in «Stardust», intuisce e predice quel momento terribile («Ti amo, dunque ti uccido»). Ma stranamente non gli viene mai in mente di cercare una via d'uscita diversa durante le lunghe sequenze dedicate al dibattito con la folla nell'auditorio dell'albergo «Stardust». Non gli è venuto in mente.per esempio, di imitare, iniece della fotografia di Fellini, la «philosophy» della Wertmùller dando a quel regista Bates che rappresenta se stesso, un profilo meno fragile e intimistico e più chiaramente controverso e •politico». Con quel gesto sarebbe stato amato, meno amato e anche rifiutato, come tutti gli altri individui destinati ad attraversare, fra incertezze, rischi e pericoli, la scena del mondo. E avrebbe trovato la chiave sia per il film (che sembra invece cadere in un buco, alla fine) sia per se stesso, intellettuale inquieto la cui agitazione dipende, se Woody Alien volesse pensarci bene, non tanto dalle angosce che ha dentro ma dal curioso rifiuto di guardare fuori e vedere il mondo. Non tutti stanno assediando le «celebrities» a tempo pieno come la tv americana gli suggerisce. C'è chi lavora, c'è chi inventa il nuovo vaccino, c'è chi ha problemi altrettanto drammatici, ma del tutto diversi, verso la fine del mese, c'è il mondo del Sud, quello del Nord, quello dell'Est, quello dell'Ovest. C'è chi scrive libri e fa poesie e produce altri film diversi dai suoi, tutte cose che Woody Alien dovrebbe sapere e vedere. Potrebbe così allontanare il mostro della televisione e dei giornali dedicati solo al culto delle «celebrities». E farebbe un gran bene ai suoi nervi di personaggio e di interprete. Furio Colombo Lina Wertmùller e Woody Alien: mostrano, sulla scena pubblica, una certa solitudine