La frontiera slovena del Carso di Alfredo Venturi

La frontiera slovena del Carso LE PICCOLE PATRIE ITALIANE TRA TENSIONI E ASSIMILAZIONI La frontiera slovena del Carso E' una delle più strapazzate dalla storia: taglia l'altopiano abi tato da comunità slave - Una lingua vittima di vecchie carenze normative, cui si sovrappongono problemi psicologici - Nonostante il buon vicinato italo-jugoslavo, persiste a Trieste una questione nazionale - Un'inchiesta tra gli operai sloveni: c'è insofferenza anche in fabbrica - Incontro con Fulvio Tomizza DAL N08TRO INVIATO SPECIALE TRIESTE — Racconta una leggenda carsica che una volta terminata la creazione del mondo avanzò un gran mucchio di rocce. Il laborioso animatore dell'iniziativa vide dall'alto una costa di boschi digradanti verso il mare, uno dei più bei mari che gli era riuscito di mettere insieme. Le rocce piovvero fra quei boschi, scavando buche profonde, ammucchiandosi sui declivi e nelle valli, rendendo rapidi e tortuosi i corsi d'acqua. Così nacque il Carso, la sua bellezza tanto aspra in un inverno rigido e limpido come questo, che lo offre inondato di sole al soffio raggelante della bora. Il caos della creazione ha poi conosciuto un'ordinata correzione umana: ecco i muretti di candido sasso che delimitano le strade e i campi, i borghi disseminati fra i boschi, e lassù una larga striscia di terra nuda che sale e scende fra il ciglione e le val¬ li. E' una delle frontiere più strapazzate dalla storia. -Un confine etnico qui non è tracciabile, dice Samo Pahor: attraverserebbe le case, i letti matrimoniali». Samo Pahor insegna lettere e storia slovena all'istituto magistrale sloveno di Trieste. E' il segretario del Comitato federale per le comunità etnico-linguistiche e per la cultura regionale in Italia. Un organismo che raggruppa dodici minoranze disseminate nel Paese: dai popoli di frontiera, gente di lingua slovena, ladina, tedesca, franco-provenzale, occitano, fino ai friulani, ai sardi e ai catalani, agli albanesi ai serbo-croati e ai greci del Sud, agli zingari sparsi lungo la Penisola. Un totale valutato sui tre milioni: ma non ci sono registrazioni ufficiali. L'ultimo censimento in cui fu registrata anche la lingua materna risale al 1921: dopo fu il fascismo, che di certe cose non voleva nemmeno sen¬ tir parlare. Italiani alloglotti? Che sciocchezza, che bestemmia antinazionale. E' grave che ancora oggi, dopo trentacinque anni di Repubblica e dopo trentatré di Costituzione (art. 6: la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche), nei moduli del censimento non è stata reintrodotta la voce relativa alla lingua. Il problema della tutela, insomma, è lontano non solo da una soluzione globale, ma anche da una definizione del suo oggetto. Eccoci dunque sul Carso, che non è soltanto un ammasso affascinante di rocce e di boschi, ma ha anche una voce, e questa voce parla sloveno. Quanti siano gli sloveni in Italia nessuno lo sa: loro dicono centomila, qualcuno arriva fino a centoventi, le stime italiane parlano di quarantamila. «La verità è forse intermedia, dice Pahor: il governo italiano tende a stimare basso perché ha sempre svolto una politica di tutela delle sole minoranze numerose, come se il diritto costituzionale fosse condizionato dal numero: e poi c'è stata una pressione che ha convinto molti dei nostri a mimetizzarsi, portato altri a perdere l'uso della lingua». Comunque sia, i Comuni dell'altopiano carsico hanno maggioranza di lingua cultura e tradizioni slovene, e le norme ereditate dal memorandum d'intesa del '54, poi riaffermate dal trattato di Osimo del 75, implicano il bilinguismo. Ma il bilinguismo è di fatto episodico: ci sono in tutta la provincia soltanto due cartelli con la scritta Trieste-Trst, e all'ingresso dei paesi c'è prima una sfolgorante targa in italiano, e solo più avanti, spesso seminascosta da un albero, la scritta bilingue. A volte la versione slovena è cancellata da tratti di vernice, per tacere delle croci spezzate, del monumento a quattro sloveni fucilati dai fascisti del 1930, che otto volte è stato -danneggia to da ignoti». Quando seppe a Parigi di queste fucilazioni, Pietro Nenni pubblicò una protesta accorata. Ma fra gli argomenti della protesta ce n'era uno che Pahor porta a esempio di una certa mentalità italiana: «Questi fessi di fascisti finiranno col regalarci un problema nazionale sloveno». Come se quel problema non fosse preesistente, e oggettivo. Il guaio, dice il professore sloveno, è che raramente la cultura politica italiana, anche di sinistra, sa sottrarsi all'assimilazione. Si registrano infatti atteggiamenti d'insofferenza etnica perfino fra compagni di lavoro in fabbrica. Eppure c'è una parziale coincidenza fra conflitto nazionale e conflitto di classe: per cui gli sloveni, tradizionalmente -proletari», non dovrebbero avere problemi con i proletari italiani. Una giovane sociologa slovena, Alenka Rebula Tuta, ha condotto fra gli operai della minoranza un'inchiesta di grande interesse. Ha registrato una «scelta di appartenenza poco gratificante, trafitta da delusioni e amarezze cocenti, percorsa da un vago senso di estraneità e di impotenza». La Tuta ha scoperto fra i lavoratori sloveni «uno sforzo continuo e molto commesso di negare la propria oppressione mentre la si subisce e di sottrarsi alla vista della propria umiliazione mentre la si combatte». Oppressione pare un termine eccessivo: eppure si parla per gli sloveni di «maggiore esposizione alla crisi», per tacere della «lingua negata», il bilinguismo mal praticato nei borghi dell'interno, assente a Trieste città. Quanto all'umiliazione, è riassunta in una parola, s'eiavo, che è il modo triestino per lo schiavo o schiavone veneziano, e che viene usata con molte sfumature comprese fra la bonarietà e il disprezzo. Si parla di compagni discriminanti, di tessere sindacali bilingui che certi operai italiani, operai della Cgil, non vogliono accettare. Insomma, più ancora che le carenze normative, che pure esistono, e per le quali si è fatta una petizione al Parlamento, mentre la deputata Gruber Benco, irritando il gruppo autonomista che l'ha espressa, ha presentato una proposta di legge, gli sloveni denunciano una persistente soggezione psicologica. Hanno le loro scuole, certo, a parte gli oltre ventimila che vivono nella Slavia veneta in Friuli; hanno un giornale, il Primorski Dnevnik (quotidiano del litorale), e perfino un partito a base etnica, IV- nione slovena, mentre il partito comunista, che assorbe forse la metà dei loro voti, ha adottato a Trieste la sigla bilingue: pci-kpi. Gli sloveni di Trieste e Gorizia hanno un generico riconoscimento del diritto a usare la loro lingua negli uffici pubblici: ma quanto è difficile esercitarlo questo diritto. C'è di mezzo, mancando una normativa chiara, un articolo del codice Rocco che punisce chiunque, conoscendo l'italiano, si rifiuti di usarlo in sede pubblica. E gli sloveni l'italiano lo conoscono. «Bisognerebbe che i triestini sapessero lo sloveno», dice Pahor: e spiega una proposta del pei che suggerisce la promozione dell'insegnamento di questa lingua. Come si fa in Istria, dove l'italiano nelle scuole è la seconda lingua (lingua d'ambiente, la chiamano loro, per evitare gerarchie) per le maggioranze che parlano croato o sloveno. Ma quando si è saputo della proposta comunista gli autonomisti del -melone» sono insorti: vogliono obbligarci a parlare s'eiavo, hanno detto esterrefatti. Per loro, per i triestini straripanti di nostalgie, divisi fra i rimpianti asburgici della grande stagione mitteleuropea e le orgogliose chiusure municipalistiche, l'idea d'inserire lo sloveno fra le lingue opzionali nelle scuole è semplicemente folle. In questa sagra dell'incomunicabilità, lo scrittore istriano Fulvio Tomizza si è attribuito una funzione di ponte. Ma il ponte è rarissimamente frequentato. «La crisi dei rapporti fra triestini e sloveni, dice Tomizza. non è che un caso limite del rapporto città-campagna, o se si svuole borghesia-proletariato, reso più arduo dalla diversità linguistica, e da una storia accidentata». Lui questo rapporto l'ha rappresentato nell'ultimo romanzo. L'amicizia, che ha confermato la qualità di Tomizza scrittore di frontiera. «La frontiera? Una categoria dello spìrito, dice: dovrebbe essere una zona di transizione culturale, una grande fascia che attutisce le diversità». Invece la frontiera è una linea, non una fascia, così è andata storicamente: e la linea è un tratto chirurgico. Il Carso, poi, per i triestini è una specie di mito, adorato e negato, insieme spazio vitale e terra di nessuno. «Il Carso dei nostri poeti sembra disabitato: non hanno mai preso in considerazione la gente che ci vive», dice un personaggio di L'amicizia. Cioè gli sloveni, che stanno lassù. Non soli e non tutti: Tomizza respinge la vecchia equazione sloveni-contadini, rustici sive slavi come dicevano le carte di una volta. La difesa dell'altopiano è uno dei propositi degli autonomisti. Ma i loro oppositori trovano sospetto questo slancio ecologico. «Sono gli eredi di chi il Carso lo ha maltrattato senza ritegno: guardi l'orrendo chiesone costruito sopra Bàrcola, e ancora oggi in pieno altopiano si scaricano tonnellate di rifiuti». Del resto, come può un'ecologia moderna curare il bene naturale trascurando i suoi contenuti culturali? In questa città di ribelli la polemica è di casa. E c'è di mezzo un groviglio di sensazioni e condizionamenti, frutto di una storia tortuosa e drammatica, che da una parte e dall'altra ha lasciato rimpianti e rancori. Non sorprende, a questo punto, che nonostante il buon vicinato con la Jugoslavia persista a Trieste una questione nazionale slovena. Prospettive? Sul piano normativo si attende una legge quadro che attui la Costituzione tutelando le minoranze nel loro insieme. Ma sul piano psicologico, e in questo caso specifico, il discorso è più arduo. La vecchia ruggine è dura da scrostarsi, anche se lenta sembra farsi strada l'opportunità di un rapporto nuovo, adeguato ai tempi, fra italiani e sloveni. Anzi, s'eiavi, o carsolini: come anche li chiama Trieste, altera e sprezzante come una gran dama decaduta, ripiegata sul suo magnifico ieri. Alfredo Venturi