I feroci e il buon Paese di Vittorio Gorresio

I feroci e il buon Paese Taccuino di Vittorio Gorresio I feroci e il buon Paese L'Italia paria in questi giorni con accenti feroci. Da Torino mi ha scritto un anonimo lettore che si definisce uomo qualunque, per protestare contro quanti di noi continuano a sostenere che la pena di morte è inammissibile in un paese civile: «Non capisco perché se la popolazione pensa che sarebbe utile, politici e giornalisti si ostinano a cercare di convincerla che non ha ragione: le leggi dovrebbero essere anche l'espressione della volontà popolare che, spesso, è sede di saggezza». Spesso ma non sempre, come appunto nel caso della pena di morte che come principio è incivile e che di fatto è inutile. Del resto, la saggezza che il mio corrispondente si attribuisce non si accompagna ad altre necessarie virtù: «Non ini firmo — mi scrive — perchè non sono sufficientemente coraggioso». Anche un altro lettore da Beinasco mi prega di assicurargli «il più stretto riserbo, data l'attività che espleto». Vuole restare anonimo anche lui. pur desiderando che ottengano \z:ga diffusione le sue idee di genere spietato. Egli infatti propone, per esempio: «Mafia e terrorismo associamoli: ogni loro vittima, cominciando dai capi, 10 di loro pagheranno contestualmente al funerale delle vittime con la stessa moneta». Se ho ben capito, questo significa applicare il metodo della rappresaglia già adottato dai nazisti nei confronti della Resistenza italiana, nella misura di dieci a uno. E' un po' forte, mi sembra, ma il lettore di Beinasco è favorevole a soluzioni drastiche. Egli deporterebbe i giovani drogati in un'isola deserta fornendoli di sementi e di attrezzi perché vi godano «l'emozionalità della vita selvaggia», e un'altra isola vorrebbe riservare ai politici corrotti: «Più il livello del peso di responsabilità era elevato, più il lavoro forzato dovrà essere duro ed asfissiante». Questa Italia feroce e punitiva emergente dalle lettere che ricevo rappresenta fedelmente il bel Paese in cui viviamo? A giudicare dai miei corrispondenti di questi giorni dovrei rispondere si. ma è da sperare che si tratti di un'esplosione di sdegno per le vicende vissute nel mese più lungo dell'annata trascorsa, piuttosto che di una reale disposizione d'animo diffusa nella maggioranza dei nostri compatrioti. Questo sarebbe moralmente triste, e per di più pericoloso socialmente, dato che l'esasperazione è sempre pessima consigliera. Alla ricerca di un po' di fiducia mi incoraggia del resto un gentile volume. // Buon Paese, (ed. Longanesi), nel quale Enzo Biagi ha raccolto una trentina di articoli di una sua inchiesta condotta all'insegna di un preciso interrogativo: « Vale ancora la pena di vivere in Italia'/». Sono incontri, interviste, ritratti di persone comuni: l'artigiano che ha fatto fortuna, l'imprenditore onesto, il magistrato coraggioso, il bravo medico, l'intellettuale indipendente, l'insegnante che crede nella sua missione, una contadina di Salerno e una madre romana borgatara di virtù eroiche, e tanti ancora in galleria di personaggi esemplari. Ci sono, avverte Biagi. «vittime della crudeltà e sognatori di un mondo più giusto, tipi che si sono fatti avanti, a forza di fatica e di invenzioni, per imporre un prodotto o un'idea; ma in tutti c'è una visione rigorosa della vita, qualche volta accettata anche senza rimpianti, con pacata rassegnazione». Si potrebbe pensare che una visione deamicisiana della vita sia il motivo conduttore di questo Buon Paese presentato da Biagi. ma mi sembra il momento di far giustizia una buona volta delle troppo facili ironie che generalmente fioriscono al riguardo. Perché mai. se qualcosa c'è effettivamente di buono in questo nostro tormentato Paese, non si dovrebbe darne conto? Altra domanda: c se cosi non fosse, come potremmo spiegare la sopravvivenza degli italiani? Ci vuole più coraggio e si ha più merito a parlar bene che a parlar male di noialtri, e sia messo da parte come superficiale espediente pseudoletterario il richiamarsi per beffa all'acritico candore innocente di De Amieis. Biagi, del resto, è a volta a volta ironico e sferzante, e partecipe, ed a nessuno è lecito sorridere con presuntuosa sufficienza del capitolo chiave (il quattordicesimo) del suo volume, intitolato «Ritratto di famiglia d'un magistrato ucciso dalle Br». Il magistrato è Guido Galli, assassinato il 19 marzo 1980 a Milano. Biagi ha parlato con il padre, con la moglie, i cinque figli di Guido Galli, e ci offre l'immagine di una famiglia italiana decorosa e tranquilla, ammirevole e degna. Discorrendo con loro si sentiva a disagio: «Ci sono momenti in cui il mestiere ti pesa, e ti vergogni di provocare certi discorsi, specialmente quando hai davanti facce pallide che sanno ancora sorridere e conoscono il pudore delle parole». E' con grande pudore che i genitori di Guido Galli scrissero infatti nel necrologio della vittima di sperare «che la morte del figlio possa salvare altre vite». L'Italia dunque non è forse feroce come darebbero a pensare le lettere che vengo ricevendo in questi giorni di esecrazione per le ultime imprese delle Br. dal sequestro del giudice D'Urso all'assassinio del generale Galvaligi. Biagi ha raccolto testimonianze diverse grazie a un'inchiesta larga e approfondita e ce ne dà un campionario che consente la ragionevole speranza dell'esistenza di un buon Paese nel quale ancora vale la pena di vivere. C'è il male, indubbiamente, che conosciamo con i nomi di terrorismo, mafia, droga e corruzione, ma di contro resistono tanta onestà e buon volere, intelligenza e rettitudine.

Luoghi citati: Beinasco, Italia, Milano, Salerno, Torino