Gramsci, confronto sessant' anni dopo

Gramsci, confronto sessant' anni dopo NEL 1921 LA FONDAZIONE DEL PCI Gramsci, confronto sessant' anni dopo Nelle sue Memorie di un rivoluzionario, uno dei capolavori della memorialistica politica di questo secolo, Victor Serge così ricordava Gramsci, da lui conosciuto a Vienna nel 1924: «Portava una testa pesante dalla fronte alta e larga, dalla bocca sottile, su un corpo gracile, quadrato di spalle e spezzato in avanti, da gobbo. Le sue mani gracili e fini avevano un fascino nel gestire. Inetto nel tran tran dell'esistenza quotidiana, facile a perdersi la sera in strade che pure gli erano familiari, a prendere un tram per un altro, noncurante della comodità del giaciglio e della qualità del pasto, era intelligentemente di questo mondo. Rotto per intuito alla dialettica, pronto a scovare il falso per farlo sgonfiare con una punta ironica, vedeva molto chiaro». Un ritratto celebre, giustamente sovente ricordato. Gramsci. Uno dei pochi italiani veramente grandi della nostra epoca, di cui Croce, fonte insospettabile, colse fra i primi la statura del pensatore politico. Credo si possa dire che fra gli uomini del suo tempo soltanto Salvemini stia a pari altezza per l'impasto tanto raro di impegno intellettuale, politico e umano che è proprio di pochi privilegiati. La cultura politica del nostro Paese è da oltre trentanni impegnata in un serrato confronto con la sua opera di dirigente comunista e teorico marxista. Quello che colpisce è che molti e diversi sono i giudizi sull'opera di Gramsci, sulla attualità minore e maggiore del suo pensiero, ma che tutti, senza eccezione, hanno individuato appunto in essa un termine di confronto non eludibile e non soggetto a quei tramonti che sono propri dei minori. Basti, a verifica, osservare la massa di studi italiani e stranieri degli ultimi decenni. Si può parlare di un pensiero che ha assunto un valore «r!assico», nel senso che esso diede forma classicamente rappresentativa a una tendenza di importanza storica decisiva nel nostro orizzonte ideologico-politico. In quanto pensatore politico egli fu un figlio tormentato della stagione di quel socialismo rivoluzionario prima e comunismo poi dell'epoca della rivoluzione di ottobre e del potere sovietico precedente l'avvento dello stalinismo organico, il suo marxismo affondava le radici in Antonio Labriola e nei pensatori della rinascita idealistica italiana; il <uo socialismo nelle lotte del L roletariato torinese a cavallo della guerra mondiale. Dalla sintesi di queste componenti teoriche e pratiche aveva ricavato [Videa forza» di una rigenerazione radicale della società che avesse nel proletariato il suo strumento attivo e nel partito rivoluzionario la guida politica e la coscienza storica. L'idea del mutamento totale dei rapporti fra i gruppi e le classi sociali, della dittatura liberatrice e rigeneratrice, rimase un asse permanente nell'azione e nel pensiero di Gramsci dal 1917 ai Quaderni del carcere. In questo senso egli volle essere e fu teorico della dittatura del proletariato, che intendeva far poggiare su un saldo fondamento di alleanze sociali e su una «riforma intellettuale e morale» delle masse. Dopo avere creduto nel 1919-20 al primato dell'iniziativa rivolu zionaria delle masse, egli modificò, di fronte al riflusso del movimento rivoluzionario che riteneva però ancora rovesciabile grazie ad una leadership «neo-giacobina» del partito, la gerarchia fra masse e partito attribuendo il primato a que st'ultimo secondo un più ortodosso leninismo. Una illusione quella del rovesciamento di tendenza, che il consolidamen to del fascismo interruppe vio len temente. Nel novembre del 1926 Gramsci venne arrestato, quin di condannato e recluso. Nel carcere mobilitò le sue deboli forze fisiche, declinanti progressivamente fino all'estinzione, nella ricerca consegnata nei Quaderni, il suo grande monumento intellettuale. Una ricer ca tutta ruotante sempre intorno al progetto della dittatura del proletariato, ma di un progetto innervato da interrogativi sulle ragioni della sconfitta subita dal proletariato e dal co munismo, dall'esigenza di in terpretare il «senso» della storia italiana ed europea, dalla consapevolezza che l'azione rivoluzionaria che aveva avuto successo nella Russia arretrata non poteva essere riproposta nella ben più evoluta società occidentale. Di qui il complesso ragionamento sulla necessità per il comunismo italiano di una strategia poggiante non su uno schematico scontro di classe risolutivo secondo il modello dell'Ottobre russo, ma sulla costruzione di alleanze sociali e politiche che al momento della forza verso le classi avverse al proletariato unissero quello del consenso e della direzione nei confronti del «blocco storico» progressista e rivoluzionario (l'egemonia). Proprio questa concezione doveva portare Gramsci ad entrare in tensione e in opposizione con determinate scelte del comunismo internazionale, sempre più «stalinizzato», e del suo partito, sempre più subalterno al partito sovietico. Se egli si era pure schierato, dopo incertezze e inquietudini, con la linea staliniana, nel 1926 in contrasto con Togliatti pose dei limiti alla sua adesione ad essa, avvertendo e denunciando la pericolosità dei metodi staliniani. Così, in carcere, si oppose sprezzantemente alla teoria staliniana del «socialfascismo» e all'acritica aspettativa dominante nel partito comunista di una imminente rivoluzione proletaria in Italia. Egli non sopportò l'avventurismo teorico e politico cui invece Togliatti si era piegato. E nel carcere conobbe la rottura e ri il suo partito, l'ostilità dei compagni, la solitudine dell'emarginato. Arrivò a sospettare che il partito lo avesse deliberatamente abbandonato per motivi di incompatibilità politica. Il partito comunista italiano, di cui ricorre il sessantesimo anniversario della fondazione, è ormai del tutto distante non solo dal tipo di partito che esso era quando Gramsci lo guidava, ma anche dal partito che questi intendeva prefigurare nella meditazione del carcere. Basti menzionare l'abbandono della prospettiva della dittatura del proletariato comunque concepita: la dissoluzione del leninismo che anche Gramsci aveva creduto, seppure non dogmaticamente, un fondamento intangibile: il mutamento del partito che è giunto a discutere lo stesso sacro principio del centralismo di matrice bolscevica e da partito antisistema terzinternazionalista è diventato assai più simile ad un partito della II che della III Internazionale. Purtuttavia. il legame con Gramsci persiste, in una certa misura, non tanto nei contenuti specifici delle prospettive strategiche ma soprattutto nella problematica aperta da Gramsci nei Quaderni sulle differenze fra Oriente e Occidente e sulla necessità che il partito comunista superasse qualsiasi visione elementarmente «catastrofica» della crisi capitalistica e militar-burocratica della trasformazione socialista. La figura di Gramsci viene in queste settimane portata a contatto di milioni di spettatori dallo sceneggiato televisivo del regista Raffaele Maiello. Uno sceneggiato non può, come facilmente comprensibile, cercare di presentare in primo piano il pensiero di Gramsci, a meno di trasformarsi in una sorta di documentario oppure di soffocare sotto una pesante cappa di ideologismo e astrattismo. Quel che emerge nel lavoro di Maiello è la figura dell'uomo, di un uomo certo in cui l'azione e il pensiero politico furono l'asse della sua biografia. L'umanità di Gramsci rinchiuso nelle carceri fasciste ha trovato una espressione eccezionale nelle Lettere dal carcere. Questo sceneggiato può essere un mezzo utile non soltanto a far conoscere in un primo approccio la figura di Gramsci, ma anche uno stimo¬ lo alla conoscenza diretta dei suoi scritti. Ed è una felice coincidenza la pubblicazione recente presso Rizzoli di un libro di Laurana Lajolo, Gramsci, un uomo sconfitto, a cui ha apposto una lucida prefazione Terracini nella quale si possono leggere parole criticamente severe come queste: «Dal 1930 al 1945 — bisogna pur dirla almeno una volta senza perifrasi questa verità — la consegna (nel pei) fu di tacere su di lui salvo che in termini rituali e negli anniversari di prammatica». Quella della Lajolo. diversamente dal ben noto libro di G. Fiori, non è essenzialmente una biografia politica. E' piuttosto il racconto della vita dell'uomo, di necessità collegata alla politica, alla ricerca intellettuale; le quali però rimangono, pur nella precisione del discorso, un contesto. La parte più bella e intensa è senza dubbio quella di Gramsci nel carcere, di un Gramsci che. come scrive l'autrice, «sopportò il suo "destino" di sconfitta con il coraggio e la sobrietà intellettuale che gli erano propri, senza indulgere nel patetico, mantenendo sempre il controllo razionale dei sentimenti». Una lettura consigliabile questo libro, dal taglio originale, quale forse solo una donna poteva dare. Massimo L. Salvador! Gramsci visto da Levine (Copyright N.Y. Review ol Books Opera Mundi e per l'Italia -La Stampa»)

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