Riprendiamoci i nostri ieri di Stefano Reggiani

Riprendiamoci i nostri ieri NELL'ARCHIVIO DELL'ISTITUTO LUCE, UN TESORO DI IMMAGINI Riprendiamoci i nostri ieri Dal fascismo al dopoguerra, un patrimonio che in gran parte deve ancora essere studiato - Un fondo speciale per l'Africa - Occorre dare autonomia alla cineteca e ai ricercatori - Confronto fra i cinegiornali del duce e degli Anni Cinquanta: una retorica che non è cambiata molto ROMA — Com'è difficile portare il peso della storia, quando dobbiamo subirla. E com'è facile dimenticarla, quando è passata. Negli archivi dell'Istituto Luce la storia è idealmente a disposizione di tutti i cittadini, di fatto congelata in una specie di suggestivo non tempo. Appena oltrepassato l'ingresso il visitatore è avvertito: le «pizze* di pellicola sparse e ammonticchiate lungo il corridoio secondo un'opportuna scenografia nascondono le immagini dei nostri ieri che s'apprestano a sprofondare nell'oblio del magazzino. Un impiegato paziente, davanti a una moviola, prende appunti per una scheda: «Celebrazione socialista per le vie di Roma, vedute di via del Corso e di Piazza Venezia». Quando? Come? L'anno scorso o vent'anni fa? C'è differenza? La «pizza» // problema dei cinegiornali e dei documentari italiani, adesso che la tv mangia quasi tutta la realtà, è stato posto di recente a Firenze, durante il Festival dei Popoli, dal conservatore dell'Istituto Luce, Emanuele Valerio Marino, che sta a guardia di un magazzino immenso, frettolosamente esplorato dagli schedatori, non dagli storici. E poco amato dallo Stato: i vari ministri delle Partecipazioni Statali, cui tocca l'Ente Gestione cinema, padrone anche del Luce, si raccomanda- no di non uscire dall'ordinaria amministrazione. Il passato riposa, il presente consuma in silenzio i suoi piccoli scandali. Marino ha raccontato a Firenze la storia esemplare dei documentari che nessuno vede. I produttori privati comìnissionano agli autori cortometraggi su vari argomenti (sociali, turistici, di varietà), li presentano all'apposita commissione per ottenere la programmazione obbligatoria nelle sale pubbliche, l'Istituto Luce, secondo il suo compito di statuto, stampa le copie, i documentari vengono inviati ai depositi regionali e poi alle sale, i gestori per non innervosire il pubblico già sazio di intervalli pubblicitari tengono la pellicola in cabina fingendo di averla proiettata. Quando la «pizza- torna a Roma, all'Istituto Luce, il giro è compiuto: il produttore avrà i soldi e potrà concorrere ai premi di qualità, le copie si potranno gettare o conservare in magazzino. Chissà quale «documentario* della realtà italiana o delle sue evasioni trarranno gli storici del futuro da questi film che nessuno ha visto. A patto, naturalmente, che restino in magazzino, la legge non è molto chiara. La «Incoiti» Nei depositi del Luce, ci sono circa dodici milioni di metri di pellicola, con immagini italiane e straniere dal Novecento ad oggi. Ma il grande patrimonio storico è chiuso tra gli Anni Venti e ■ gli Anni Sessanta, intorno ai cinegiornali Luce e ai cinegiornali del dopoguerra, «La Settimana Incom* soprattutto. Settimane, mesi di proiezione ininterrotta, un fiume di cronache, particolari, mistificazioni, ufficialità, guerre, celebrazioni sul quale galleggia la storia. Spiega Marino: «Bisogna uscire dal sistema degli enti di gestione, dare più compiti e autonomia al Luce e alla sua cineteca. Dovremmo inseguire i bisogni latenti della collettività». In altre parole: produrre film scientifici, repertori di montaggi, presentare periodicamente il materiale dell'immenso archivio, aiutare la gente a riprendersi i propri ieri. Il conservatore sospira: «Abbiamo recuperato con grande fatica le pellicole disperse dopo la guerra, abbiamo ritrovato in magazzino le eccedenze, i pezzi non utilizzati spesso più interessanti dei cinegiornali ufficiali, è stato costituito un fondo sui documentari africani, sull'ex Africa Orientale Italiana, al quale vengono ad attingere i Paesi ex coloniali. Vogliono ricostruire le proprie tradizioni perdute o interrotte». Come tutti i custodi di ricchezze. Marino è combattuto tra il desiderio di mostrare i propri tesori e la gelosia di conservarli. Ma, certo, chilometri di storia sono troppi per un uomo solo, anche se li ha difesi valorosamente contro il disinteresse politico. Ci sono difficoltà per l'autore che voglia usare pubblicamente le immagini dissepolte del Luce? «In linea di principio, no. Alcuni fondi sono vincolati da chi ce li ha forniti, possediamo le pellicole scio per farle vedere, non per ristamparle. Per il resto no. è una questione da regolare con gli amministra¬ tori». Lo studioso che abbia occhi e pazienza, sa qual è il suo compito. Non per nulla l'archivio del Luce sta a Cinecittà, vicino agli studi che ormai solo Fellini ama. Fellini inventa le immagini della memoria, il Luce possiede gli originali: sono due «Amarcord* necessari l'uno all'altro. Starace Dai film di montaggio già realizzati («Fascista* di Naldini, «La Repubblica di Salò*), dai libri progettati negli archivi del Luce («L'occhio del regime* di Argentieri. «Il cinema corto* di Bernagozzi, «Immagine del fascismo», di Laura) si capisce bene qual è il filo che ci lega più strettamente alle immagini di ieri, quello che vorremmo svolgere fino a trovarne il capo: il rapporto tra l'apparenza e il potere, l'aiuto che lo spettacolo ha dato alla politica, nei momenti precari quando quello che si vede sembra quello che è. Qualche volta c'è solo quello che si vede. Laura non sembra aver dubbi sul fascismo: «Se togliamo al fascismo l'aspetto monolitico che l'immagine della propaganda ne ha diffuso per ventitré anni, se ci liberiamo dei riti e dei miti e delle coreografie più provinciali di Starace, che cosa rimane?». Preoccupazione che avevano anche i gerarchi fascisti, a cominciare dal primo, il duce, che assisteva in anteprima ai cinegiornali. Raccontava Luigi Freddi, direttore della cinematografia: «C'era quasi sempre in lui come un senso di insoddisfazione. Capiva che i cinegiornali erano insufficienti e monotoni. Generalmente si sfogava dando ordini di ridurre il materiale che lo riguardava. Era perfettamente consapevole che una assiduità troppo assillante poteva avere come conseguenza un senso di saturazione che avrebbe confinato con la noia». E il responsabile del Luce. Paulucci di Calboli, scriveva net '38 al ministro Alfieri: «C'è monotonia e ripetizione dei soggetti. Ma qui le possibilità dell'Istituto sono assai limitate, in parte perché deve prevalere il criterio politico, in parte perché non si potranno mai fare eliminazioni o riduzioni finché non trovi remora il metodo delle raccomandazioni. delle pressioni e. ahimè, dei risentimenti, nel quale si esercitano gli enti e gli uomini interessati». E' probabile che sulla grande rappresentazione del fascismo l'archivio del Luce debba ancora dire la parola definitiva. Tra le nostre certezze di oggi (di una propaganda abile e capillare, di un mito costruito con i massmedia) e le incertezze di allora (di una rappresentazione approssimativa e gioiosa) stanno i chilometri di pellicola che nessuno ha ancora «davvero* insto, le eccedenze di cui parla il conservatore Marino, gli scarti di realtà che oppongono alla scena il retroscena. E' probabile che lo studio debba chiarire il rapporto tra le parole e le immagini, il peso soverchiante che ebbe il commento parlato negli anni fascisti del consenso, la natura di una oratoria cinematografica che non si fermò con la caduta del fascismo e la Repubblica di Salò, ma ri¬ prese, dietro altre immagini del potere dopo la guerra. Tra i cinegiornali Luce e la «Settimana Incom* la voce declamatoria di Guido Notali costituì un tramite retorico. Negli Anni Trenta il documentario «Duce* concludala con una invocazione: «Nel tuo nome, che valica i confini della patria verso le vette solari sacre agli spiriti grandi che fondarono le umanità e le civiltà, giura oggi e sempre il popolo fedeltà...». Negli Anni Quaranta la guerra non interruppe 10 stile: «II duce fra le truppe vittoriose passa in rassegna con passo atletico i reparti, nella più rude e ferrea efficienza bellica» (Cinegiornale 5 luglio 1940). Alla vigilia dei Cinquanta una visita di Fanfani in un cantiere di rimboschimento ^«Sono i poggi dell'Aretino questi che 11 ministro Fanfani ascen¬ de»* e un documentario sulle carceri femminili («he mani che conobbero l'attimo convulso della violenza ritrovano i gesti mansueti della vocazione femminile»* confermarono la persistente copertura retorica. Nella sala di consultazione del Luce, chiusi in due serie di volumi, i testi dei cinegiornali e della «Settimana Incom* interpretano una storia che è tutta da rifare, da ripercorrere attraverso i milioni di metri di pellicola che dormono negli archivi. E un patrimonio che va diviso con tutti, indispensabile presupposto per capire la terribile retorica, le bugie, le finzioni, le speranze che accompagnano le immagini del presente, come un segno apparente di rottura, con un sospetto profondo di coerenza. Stefano Reggiani Roma, 1935.1 «figli della lupa» sfilano davanti al duce, sulla via dell'Impero, in occasione della ottava leva fascista

Luoghi citati: Africa - Occorre, Africa Orientale Italiana, Firenze, Roma, Salò