Affascinato dal dolore di Guido Ceronetti

Affascinato dal dolore VIAGGIO NELL'ABISSO DI GRÙNEWALD Affascinato dal dolore COLMAR — Quel che subito si sente, davanti al polittico d'altare di Mathis Griinewald, al museo Unterlinden di Colmar, è una specie di tromba d'ari?, di malessere e di strappamento. L'inclinazione delle figure e delle cose, come sottoposte a una forza che le flette, il clima violento che le preme, producono l'impressione che l'aria ferma del luogo giri a vortice. Ma non bisogna lasciarsi rapire, o la vista resterà perturbata. In verità, questa è una piccola meditazione a posteriori, dopo l'urto e la conoscenza diretta della sfinge di Isenheim. Avendola interrogata con una certa appassionata insistenza, ne ho avuto risposte curiose e inaspettate. Ho capito quale sia il primo errore da evitare: quello di essere uno spettatore di forzatura psicologica e di sensibilità moderne. E' possibile allontanarsi da questo tipo di sensibilità, almeno per tre quarti d'ora? Allora, l'altare di Isenheim potrebbe sciogliersi, diventare accessibile. Il modo di sentire che fa sbagliare è quello che, con particolare ed esclusivo piacere, si lascia affascinare dall'illimitata potenza che l'artista ha messo nella rappresentazione del dolore (Crocifissione e predella della Pietà) e del tormento demoniaco (Tentazioni di Sant'Antonio). Il moderno sensibile adora il dolore e il demoniaco al punto da non tollerare di uscirne, se la mano di ferro dell'arte ce lo tuffa, per una contemplazione più pura. Il moderno ha anche, per la sua assuefazione alla prigio nia, ai mind-forg'd manacles, le manette mentali, un gusto enorme per il labirinto, e se qualcuno pensa a indicargli come venirne fuori si allarma subito. Si è costruito città-labirinto che tendono a saldarsi in un dedalo unico e senza scampo. Io mi stupisco di come mi trovo bene nelle metropolitane (pur essendo claustrofobo) che per un antico sarebbero state peggio delle tenaglie roventi. E l'arte di Grunewald, a questa nostra sensibilità, sembra consistere essenzialmente in figure e paesaggi tragici che ci battono come martelli: dolore! dolore! dolore! Perciò, dopo un sunno di quattro secoli della Verde Foresta, il risveglio alla gloria storica, la passione, l'interesse, la filologia, le radiografie, il culto, il turismo... Un grande letterato, Huysmans, fu il primo ad aprire la marcia, ma senza capirci molto. Così da circa cent'anni quell'uomo schivo e oscuro di città renane sente proclamare in ogni lin gua europea il suo genio — i addirittura la modernità protoespressionistica del suo stile Gli affascinati dal dolore lo ritroverebbero meglio nelle piccole Crocifissioni di Basilea e di Washington o nella dop pia tavola di Tauberbischopsheim a Karlsruhe. Io ho visto soltanto la Crocifissione di Basilea, e credo abbia interamen te ragione Testori dicendo che questo «terrificante capolavoro» ingoia e annulla il resto del museo, anzi se ne espelle per la sua forza. (Anche per la sua dolcezza, la sua divina misericordia). Ma all'Unterlinden c'è una macchina poderosa, dove le scene, che nel gioco origina rio non si presentavano mai simultaneamente, sono nove inopportunamente sparse dalla secolarizzazione museale, che quanto più le scopre tanto più le nasconde. La lettura mistica e teologica del volume di Isenheim passa per le vie delle Rivelazioni di Santa Brigitta e di Lutero, ma la teologia della croce (in un certo senso anticipata dagli artisti nordici del dolore) non va le che per la sola Crocifissione. C'è anche soggiacente l'idea che sia necessario patire insie me a quel dolore, e Meister Eckart diceva: «Se vuoi diventare figlio di Dio e non soffrire, tu hai assolutamente torto». Il moderno vuole soffrire per soffrire, come un russo di Dostoevsky, non per diventare figlio di Dio; perché si sente e si vuole figlio di nessuno. Basta questo a separarci dalla visione grunewaldiana. Una linea di Santa Brigitta che, se non ha guidato la mano del pittore quando lavorava al gruppo di Maria semimorta e di Giovanni parlante al suo pietrificato dolore (il punto di più alta bontà-bellezza di tutto il poema), può completarne per noi la visione, dice così «Compiute queste cose, venne quel bravo Giovanni e mi con dusse a casa». (Chi parla è la stessa Regina coeli, terminando il suo racconto della sepoltura del figlio), llle bonus Ioannes Come un fedele amico dop un qualunque funerale di la crime... Vedendo il gruppo grunewaldiano, non posso di- menticare quel che succederà tra poco: la madre del suppliziato che rinviene, la vita che ripiglia, et duxit me in domum... La lettura gnostica, non dolorizzante e non teologizzante, che interpreta I'Isenheim come 10 strumento per una conoscenza superiore, è la più difficile, e probabilmente la più esatta, ma ecco allora quel dolore cambiare faccia, diventare un momento, una fase, un transito (in me la sensibilità moderna riaffiorante dice: un toro castrato). Lo stesso contenuto cristianissimo di questa pittura tradizionale sembra messo in pericolo. Tuttavia, la gnosi propriamente cristiana è 11 nocciolo di tutto il legato iconografico e architettonico che la nostra perduta religione ci ha lasciato. (Però dire gnosi non esclude l'attributo cristiana?). Gnosticamente che cos'è un Cristo morto o moribondo? Non un uomo; un Dio che muore per risorgere; dunque, non muore. Quel Dio non corre a perdifiato nella morte. Dopo la poltiglia sanguinosa, e quelle mani che si torcono in un dolore smisurato, e quella notte sublime di strazio del mondo, dopo che il bonus Ioannes ha ricon dotto a casa la madre quasi mortua, che cosa avviene? La pesante pietra sepolcrale si spalanca dopo un computo esatto, da ricorrenza ciclica, di ore, per la forza magica di quel Cadavere deposto che, rovesciando uraganicamente i guardiani corazzati della Morte, tende a un trono di luce da cui è solo apparentemente disceso. Neppure va ignorata la figura di destra della Crocifissione: è l'altro Giovanni, il Battista, ed è perfettamente indifferente, un corifeo al di là del tempo tragico. Tiene in mano la parola sacra e indica il Sacrificato, secondo l'ortodossia evangelica, come il predestinato a superarlo. E anche questo delude la nostra sensibilità, perché la figura del Battista rende metà della scena orfana di tragico, muta di dolore. Trang! Trabang! Stridi, gira, sbatti, pesante faccia lignea e rivela il resto della storia: un'Annunciazione che ha lo stesso impeto della Crocifissione, ma per dire una parola di pace, è in coppia con una Resurrezione che è una teofania abbagliante; in altre due tavole un misterioso Concerto d'angeli canta e suona per una Natività piena di calma e di gioia, popolata di simboli (la Rosa Mistica, che è la stessa Vergine, abitacolo del Dio; il vaso da notte, segno dell'umiliazione della Luce; l'ampolla che è la vulva del parto virginale...) e qui l'anello si salda, e ripercorrendo il circolo la Natività precipiterà nella morte orribile, come la sepoltura era volata alla resurrezione. Sono da leggere a parte, credo, le due ultime tavole, di tema antonita: l'incontro dei due asceti del deserto e l'assalto spaventevole dei mostri, da cui emerge il significato terapeutico, la virtù curativa, antipeste, antisifilitica, del poema. I due abati sono due perfetti guariti della malattia del mondo, immagine di come dovrebbe essere trasformato dalla visione avuta, e seguita per gradi, lo spettatore. Non lasciarti ipnotizzare da quel tremendo morto sulla croce. E' la grande verità del dolore, ma non è tutta la verità: è soltanto quella che possiamo capire di più e a cui siamo più affezionati, per una speciale curvatura della nostra miseria. Ma quella Resurrezione — nelle riproduzioni, un disastro — ha lì, realmente, il colore della gloria divina. Il Dio risorge in un cerchio di arcobaleno, quello che Dante ha visto al culmine del proprio viaggio (che non termina con l'Inferno, come I'Isenheim non si arresta alla croce) e l'artista ha con centrato la sua potenza sulla diafanità celeste e l'emanazione luminosa della figura divina, quasi avesse udito Plutarco parlare di Osiride egizio e dei suoi riti: «L'abito di Osiride non ha che un solo colore puro, quello della luce». Allora, «Morte, dov'è la tua vittoria?». Questa luce vince gnosticamente, sul piano della pura realtà intellettuale, la pena e il sangue della macchina patibolare. Se diamo il primato all'intelletto (cosa naturale nel pensiero e nell'indole antica e classica; a noi darglielo costa dolore, sembra sradicarci, farci morire) qui è la vera chiave, e il Cristo più doloroso della pittura si rivelerà come un silenzio e una solitudine d'immortale, il grande riposo della virtualità cosmica, l'agnello che s'immola senza morire, che è contemporaneamente dentro e fuori del sepolcro, crocifisso e risorto. Nessuno potrà mai persuaderci del tutto — è più ragionevole la convinzione opposta, ma senza ambiguità siamo perduti — dell'esistenza storica del Cristo ebreo nella Giudea romana e della realtà della sua morte su un patibolo da gladiatori. Solo un Dio di luce che fuori delle sbarre della storia s'incarna senza incarnarsi e muore senza morire è, per via di gnosi, assimilabile come certissimo. Non è un Messia venuto a soffrire una volta per tutte, è l'annuncio che il mondo, voragine di dolore, non è che una drammatica illusione, un non-essere che patisce. Potrebbe essere questo l'unguento degli unguenti nascosto nel misterioso armadio di Isenheim. Guido Ceronetti La «Resurrezione» dell'altare di Isenheim

Persone citate: Eckart, Grunewald, Lutero, Meister, Osiride, Stridi, Testori

Luoghi citati: Basilea, Colmar, Isenheim, Washington