Pianti di gioia in casa dei familiari «Ora ci aspetta l'ultimo supplizio»

Pianti di gioia in casa dei familiari «Ora ci aspetta l'ultimo supplizio» Pianti di gioia in casa dei familiari «Ora ci aspetta l'ultimo supplizio» Dopo la liberazione, i diplomatici dovranno trascorrere a Wiesbaden un «periodo di decontaminazione» - La moglie di un ostaggio: «Khomeini ci ha beffato troppe volte» - Nelle carceri islamiche restano due cittadini americani (DALLA REDAZIÓNE DI NEW YORK) NEW YORK — Da venerdì scorso, quando nel massimo segreto il Dipartimento di Stato comunicò loro che in linea di principio l'accordo era ormai concluso, i familiari degli ostaggi hanno trascorso le ore forse più difficili. Per tre notti, sino all'annuncio di ieri, nessuno ha dormito: con giornalisti, telecamere, agenti dei servizi segreti accampati in casa, genitori, mogli, figli, fratelli e sorelle dei diplomatici prigionieri sono passati dall'esaltazione allo scoramento e viceversa. A intervalli regolari suonava il telefono della linea diretta con Washington: ma giungevano solo parole di conforto, non la felice notizia attesa per 443 giorni. La gioia dei congiunti degli ostaggi è esplosa ieri, quando* all'alba, esattamente alle 5,05, il presidente Carter ha dato la conferma dell'accordo. Da New York a Los Angeles, nelle loro case sono risuonati grida e pianti liberatori, mentre si sturavano bottiglie di champagne e si intonavano cori patriottici. Il momento più emozionante è stato durante la trasmissione via satellite da Teheran delle immagini dei prigionieri sottoposti alla visita medica all'aeroporto. C'era solo il filmato, senza sonoro: sugli schermi si scorgevano medici e infermiere in uniforme accanto ai 52 americani, alcuni emaciati, altri visibilmente in buona salute, pochi sorridenti. Neppure ieri tuttavia i nastri gialli, che simboleggiano l'attesa del ritorno degli innamorati dalla guerra, sono scomparsi dalla porta delle case. Prima che i familiari riabbraccino gli ostaggi trascorrerà ancora qualche tempo: i diplomatici dovranno infatti trascorrere un periodo di decontaminazione» a Wiesbaden, in Germania. Ha dichiarato Patti Lainglen, moglie dell'incaricato d'affari dell'ambasciata in Iran: «Sarà l'ultimo supplizio, anche se ci rendiamo conto della sua necessità: non appena rientreranno in patria, mio marito e i suoi compagni non avranno tregua». La signora Lainglen ha detto di sperare che i familiari possano recarsi tutti a Wiesbaden alla fine di questa settimana. Due gruppi di persone sono stati più vicini di chiunque altro ai congiunti dei prigionieri. Il primo è formato dai 20 funzionari dell'ambasciata usciti dall'Iran tra il novembre '79 e il luglio '80:13 furono rilasciati poco dopo la cattura dell'ambasciata; 6, rifugiatisi presso i canadesi, fuggirono a gennaio, 1 riacquistò la libertà VII luglio perché gravemente malato. Il secondo gruppo è quello dei familiari degli 8 marines morti nello sfortunato «blitz* di aprile nel deserto del Kavir. Con un gesto di grande sensibilità, il presidente Carter ha telefonato a ciascuno di loro: «Il sacrificio dei vostri cari» ha detto non è stato inutile: l'America ve ne sarà sempre grata». Domenica nella cattedrale di San Patrizio a New York il cardinale Cooke ha officiato una messa solenne. A Hermitage, in Pennsylvania, ieri come in tutti i 442 giorni trascorsi, è stata alzata la bandiera americana, tra le preghiere. A Mount Pleasant, nello stesso Stato, il sindaco ha indetto una festa cittadina. Al banco delle informazioni del Dipartimento di Stato a Washington si sono formate code interminabili di persone in attesa di notizie. I giornali, le radio e le televisioni sono stati sommersi di telefonate. Le reazioni erano in genere di sollievo, ma anche di rammarico per la debolezza mostrata dagli Stati Uniti durante la crisi. La cerimonia più densa di significato si è svolta in una chiesa di Pasadena, officiata dal pastore Earl Lee, padre di uno degli ostaggi. «Mentre salgono sull'aereo che li porta via dall'Iran — ha detto — il loro cuore sia privo di risentimento e odio. La tragedia ha rafforzato l'unità delle nostre famiglie e del Paese». Pasadena è una comunità della California, la parrocchia protestante conta 1800 persone. In passato, davanti all'ingresso erano stati affissi cartelli con scritto «Bombardate l'ayatollah», ma ieri non ce n'era più nessuno. Ha dichiarato la signora Luisa Kennedy, moglie di uno dei prigionieri, in una conferenza stampa: «Tutti vogliamo mettere una pietra sul passato, anche se molte ferite non si risaneranno mai». A New York, con gli occhi pieni di pianto, Sara Rosen, la moglie dell'addetto stampa dell'ambasciata a Teheran, una delle donne più combattive tra i congiunti degli ostaggi, ha ricordato il trauma patito dai bambini. «Per molti dei nostri figli» ha affermato l'accaduto era incomprensibile. Piangevano di notte, non accettavano il fatto che il padre fosse detenuto da "uomini cattivi". Come i nostri cari che ritornano, avranno bisogno di infinite cure». Un altro dei leaders dei familiari, Katherine Keough, si è rifiutato di festeggiare la soluzione della crisi. «Lo farò» ha detto con espressione dura «quando l'aereo sarà in Germania. Troppe volte il regime di Khomeini ci ha beffato crudelmente». Due americani rimangono nelle carceri islamiche: una giornalista cinquantenne, Cinthia Dwyer, e un commerciante di origine iraniana, Mohi Shobani. Entrambi sono accusati di spionaggio. Sono stati arrestati nel maggio e nel settembre scorso. Il Dipartimento di Stato non ha potuto includerli nelle trattative e la loro sorte desta preoccupazione. I familiari degli ostaggi premono perché Dwyer e Shobani vengano liberati. «Non possiamo accettare che altre famiglie vivano i nostri tormenti, ha detto Luisa Renne dy. «Noi siamo appena usciti dall'inferno. Non vogliamo che altri patiscano le stesse sofferenze». Francoforte. Il personale militare della base aerea statunitense di Rhein-Main prepara il benvenuto per i cinquantadue ostaggi