Il mal d'Africa di Reagan

Il mal d'Africa di Reagan OSSERVATORIO Il mal d'Africa di Reagan Tre giorni fa, in un messaggio alla Conferenza afro-americana di Sierra Leone, il presidente designato Reagan ha promesso la «collaborazione e assistenza» del suo governo «alle democrazie emergenti» del continente. L'invio del messaggio — non sollecitato — e il suo linguaggio dimostrano la decisione di Reagan di seguire in Africa una politica meno passiva e più «presente» di quella di Carter. Anziché rassicurare tutti i partecipanti alla Conferenza, tuttavia, il messaggio ne ha allarmati alcuni, che vi hanno scorto l'ombra di futuri interventi Usa nei loro affari interni. La parziale inquietudine africana nasce, oltre che dalla inattesa dichiarazione del presidente designato, anche da quelle dei suoi principali collaboratori: Richard Alien, che dirigerà il Consiglio di Sicurezza nazionale, Alexander Haig, che sarà segretario di Stato, e Jane Kilkpatrich, futura ambasciatrice all'Onu. Alien ha detto che la superpotenza non ritiene l'importanza strategica dell'Africa inferiore a quella del Medio Oriente e dell'Europa. Haig ha precisato di avere tra i suoi obiettivi il ritiro delle truppe sovietiche e cubane da Etiopia e Angola. E Kilkpatrich ha scrìtto che «è tempo di affrontare il problema delle insurrezioni marxiste che portano alla tirannia». Senza dubbio, rispetto alla strategia carteriana delle mani pulite, la linea di Reagan costituisce un enorme cambiamento. Dopo aver assistito senza reagire all'intervento militare sovieticocubano in Etiopia e in Angola, Carter aveva abbracciato la causa terzomondista in Africa, contribuendo alla fine del colonialismo in Rhodesia e programmando quella della dittatura in Namibia. I suoi due ambasciatori negri all'Onu, Andrew Joung e Donald McHenry, avevano perseguito con vigore la difesa dei diritti civili nei territori coloniali. Carter aveva spinto la sua neutralità al punto di chiudere le porte ai guerriglieri filo-occidentali dell'Angola e di rifiutare ogni aiuto ai francesi nello Zaire. Il Presidente designato e il suo entourage non ritengono che la strategia delle mani pulite possa avere in Africa applicazioni universali. In talune circostanze, anzi, la giudicherebbero colpevole o controproducente. Essi vedono nel Continente Nero una delle arene principali del confronto tra Stati Uniti e Urss. A loro parere un'assenza americana alimenterebbe l'espansione sovietica. Nelle parole di Kilkpatrich, «l'atteggiamento di scusa rispetto al Terzo Mondo non è moralmente necessario né politicamente approprialo». Perciò quando l'ex segretario di Stato Kissinger si è recato in Medio Oriente, Reagan gli ha chiesto di visitare anche le nazioni africane più influenti. E' la linea che proprio Joung e McHenry rimproveravano a Brzezinski, il consigliere di Carter, e che respingevano come globalista, inficiata cioè dal bipolarismo e insensibile alle istanze africane. Ma il Presidente designato e i suoi collaboratori non solo negano che essa comporti il sacrificio dell'africanismo; sostengono anche che è l'unica che può esaltarlo, consentendogli di svilupparsi libero da interferenze russe. In questo senso, non presenterebbe rìschi di alleanze con regimi reazionari. «Bisogna distinguere — ha dichiarato Alien — tra le aspirazioni africane all'indipendenza e la sovversione del Cremlino. Ovviamente l'interesse americano coincide solo con le prime». Ennio Caretta Reagan: politica meno passiva nel Continente Nero