Pensare la musica di Massimo Mila

Pensare la musica NUOVE «STORIE», VECCHI DILEMMI Pensare la musica Parallelamente alla sete di musica cresce la richiesta d'informazione musicale, ed è buon segno che dalla fase sbrigativa e utilitaria dei dizionari si stia passando al consumo di monografie (cinque o sei volumi su Verdi nello scorcio dell'anno testé trascorso!) e alla meditata lettura di storie della musica. Lettura, si spera, e non frettolosa consultazione occasionale mediante l'indice dei nomi. Ma se le storie della musica bisogna leggerle da capo a fondo con pazienza, prima bisogna anche scriverle, e qui cominciano i guai. Oltre a tutti i problemi entro cui si dibatte la storiografia generale, quella musicale ne presenta altri in proprio, dovuti alla natura specialissima — fluida e impalpabile — dell'arte che ne è oggetto, cosi renitente a lasciarsi tradurre in parole. E anzi tutto, qual è appunto l'oggetto della storia della musica? Le opere, gli autori, gli stili, le forme, i generi? La storiografia positivista dell'Ottocento non aveva dubbi sulla realtà dei generi musicali. Faceva testo la collana dei Kleine Handbticher der Musikgeschichte nach Gattungen («Piccoli manuali di storia della musica per generi») che la Casa editrice Breitkopf und Hartel affidava ai luminari della Musikwissenschaft, del resto imitata tuttora da collane inglesi di divulgazione economica, come i Penguin e i Pelican Books. Oggi sarebbe un po' difficile che uno studioso se ne venga fuori con una Storia della Sinfonia, sebbene la Storia della Sonata del Newman sia pur opera recente e di tutto rispetto. Certi fenomeni musicali presentano una tale compattezza o una tale parvenza d'isolamento, che la storia dell'opera o quella del madrigale si propongono tuttora come trattazioni autosufficienti. Del resto, anche se non si allineano più nei nostri scaffali le venerabili storie dei generi musicali, dove si apprendeva tutto sul divenire delle forme, e niente sul divenire della musica, il problema si ripresenta all'interno delle Storie generali della musica, dove la ripartizione dei generi si accapiglia furiosamente con le ragioni sacrosante della cronologia. Basti dire che nelle 32 sciagurate tesi ministeriali secondo cui s'insegna la storia della musica nei Conservatori, si va avanti con la storia dell'opera fino ai contemporanei, poi, con la tesi 24, brusco salto indietro per cominciare lo studio della musica strumentale. Sicché Frescobaldi e Bach si studiano dopo Wagner, dopo Verdi, dopo Puccini! * * Oggi si assiste fortunatamente alla rivalsa del diacronico sulla fittizia ripartizione in generi e invece di storie della cantata o dell'oratorio si producono storie della musica nell'età antica, nel Rinascimento, nell'età barocca e avanti fino ai nostri giorni, affidate a uno o più competenti del periodo studiato. La Storia della Musi ca in dieci volumi promossa dalla Società Italiana di Musi- cologia e quasi ultimata, con sorprendente rapidità, dalle Edizioni di Torino, non ha niente da invidiare al modello americano della Norton, che vanta i grandi testi di Curt Sachs per la musica antica, di Alfred Einstein per il Romanticismo, o a quello inglese della Prentice-Hall history of Music per la Oxford University Press. (La Norton History of Music in sei grandi volumi, pubblicata per l'Inghilterra da Dent, è parzialmente tradotta in italiano presso Sansoni, ed è un fatto consolante che il volume di Gustave Reese su La musica nel Medioevo abbia raggiunto recentemente, sia pure dopo vent'anni, la seconda edizione). La ripartizione per epoche affidate a singoli studiosi costituisce il ripiego più accettabile per l'altro grande dilemma in cui si dibatte oggi la redazione di storie della musica: per autore unico o per équipe? La specializzazione erudita è giunta oggi a tal punto che si ritiene impossibile a una sola persona padroneggiare l'enorme estensione della ricerca e della bibliografia, come riusciva nell'Ottocento a grandi maestri come August Wilhelm Ambros, il De Sanctis della storiografia musicale, Guido Adler o Hugo Riemann. Si ricorre perciò all'opera di singoli specialisti, col rischio di addivenire a una specie di mantello d'Arlecchino, qual è risultata la nuova Oxford History of Music (presentata in italiano da Feltrinelli), dove il polverio di contributi infinitesimali sminuzza la materia in una selva di ripetizioni e contraddizioni, annullando la continuità del pensiero storico. La soluzione di affidare interi periodi a un solo autore, se non garantisce l'omogeneità della visione generale, assicura per lo meno all'interno dei singoli volumi la continuità di quel pensiero unitario nel quale consiste l'essenza della storia. Fare storia della musica significa, secondo un'espressione di Boulez, pensare la musica, e di pensiero non v'è traccia in quelle diligenti operazioni di ricerca che si spacciano per storie e si limitano invece ad affastellare detriti di fatti in una registrazione annalistica di documenti d'archivio. L'esigenza del pensiero e delle idee è ben presente allo studioso berlinese Cari Dahlhaus, i cui Fondamenti di storiografia musicale (Discanto Edizioni) sono percorsi da una patetica ansia di «scientificità». Ed è strano che un indagatore cosi sottile, sempre portato a spaccare i capelli in quattro per eccesso di speculazione, non senta mai il bisogno di chiedersi che cosa sia questa agognata scienza della musica, né di porle a fronte un eventuale metodo storiografico che scienza non sia. Eppure lo scrittore è perfettamente consapevole di tutti quei caratteri di soggettività, di non schematismo, di coerenza organica e perciò di relatività che rendono la historia filia temporis e ne escludono la parentela con le scienze cosiddette esatte. Altrimenti sono sostanzialmente sani e accettabili i criteri con cui il Dahlhaus affronta i problemi generali della storiografia e quelli specifici della storia musicale, sebbene l'esposizione sia tortuosa e tormentata, forse resa oscura da difetti di traduzione. Il Dahlhaus sa bene che la «presenza estetica» è il filo d'Arianna che consente di conferire un coerente ordine storico ai materiali scavati dalla ricerca e ani mucchiati alla rinfusa. Non v'è divorzio fra estetica e storiografia, anche se la distinzione dei due criteri non sia inutile «nella misura in cui si resti con sapevoli della sua provvisorietà e specificità». Né il fatto che si faccia storia solamente del pas sato ci vieta di valutare l'opera musicale anche nella sua Wirkung, cioè nella sua efficacia sull'evoluzione futura del lui guaggio musicale, pur sapendo che non necessariamente essa condiziona il valore estetico, nonostante l'importanza assun ta dal criterio di originalità a partire dal secolo scorso. Da settori culturali di formazione prevalentemente mar xista si avanzano sempre più frequenti contestazioni della tradizionale storiografia musicale intesa precipuamente come storia di opere, d'autori e di stili, e s'invoca maggiore atten zione a criteri sociologici che privilegiano aspetti pratici della musica, quali la sua funzione sociale, la sua ricezione, gì strumenti e le istituzioni. Si ri sponde che, nella misura in cui è utile, questo è sempre stato fatto dalla storiografia musica le degna di questo nome. Non c'è storia della musica che non registri, poniamo, il passaggio dal clavicembalo al pianoforte l'invenzione del violino e la costituzione dell'orchestra moderna, con tutte le conseguenze che questi fatti ebbero sulla creatività musicale. Non c'è studioso di Mozart quale trascuri l'importanza che ebbe per lui il contatto con l'orchestra di Mannheim o la possibilità di disporre di strumenti come il clarinetto o il corno di bassetto che a Salisburgo non c'erano. Ugualmente non c'è studioso serio che trascuri l'importanza determinante che ha sulla creazione artistica la sua destinazione: per la chiesa o per il castello, per la festa popolare in piazza o per la corte, per il teatro o per il concerto da camera. Non si potrebbe dire neanche una parola sulla musica di Bach se si prescindesse dalla situazione sociale e professionale in cui egli si venne a trovare nelle diverse sedi del suo lavoro. Tuttavia la storia degli strumenti, la storia della ricezione, la storia della funzione sociale sono aspetti necessari ma sussidiari della storia della musica, che in essi non si esaurisce: se ne serve, ma è disciplina più vasta e comprensiva. Con la prosperità degli studi di etnografia si fa sempre più valere l'esigenza che la storia della musica esca dal suo tradizionale eurocentrismo. Storia universale della musica s'intitola fieramente una grande opera recente di Roland de Candé (Editori Riuniti) che smentisce brillantemente l'asserita impossibilità, per un autore unico, di dominare la marea crescente dei dati forniti da ricercatori e specialisti. Nella sua aggiornata informazione e anche nella ricchezza di magnifiche illustrazioni bene incardinate nell'esposizione, quest'opera tiene davvero conto delle nuove esigenze che il progresso degli studi e l'evoluzione della società pongono alla storiografia musicale. Eppure bisogna ammettere che i capitoli sulla musica nella preistoria e nelle presenti civiltà dell'Oriente, dell'Islam e dell'Africa non legano con la trattazione della solita musica occidentale. Se ne stanno a parte senza far corpo, come storia di un'altra cosa. Perché? Proprio perché la vera storia non è ammasso di notizie, ma è «pensare la musica», e allo stato attuale delle cognizioni mancano i presupposti culturali per legare in coerente unità di pensiero la musica indiana delle ragas o quella araba dei maqam con quella delle Messe di Palestrina e delle Sinfonie di Beethoven. Massimo Mila

Luoghi citati: Africa, Inghilterra, Mannheim, Palestrina, Salisburgo, Torino