Bottai, una «fronda» con licenza dei superiori

Bottai, una «fronda» con licenza dei superiori L'ANTOLOGIA DI «CRITICA FASCISTA» Bottai, una «fronda» con licenza dei superiori Nelle pagine dell'«Isola», Giorgio Amendola ha raccontato il diverso trattamento che riservò — nell'estate del 1937, lui detenuto politico a Ponza e con un permesso di soggiorno temporaneo a Roma — alle proposte di incontro formulate nei suoi confronti da due gerarchi del fascismo giunti al massimo del loro potere, Galeazzo Ciano e Giuseppe Bottai, «vecchi amici della mia gioventù». Il primo ministro degli Esteri, il secondo titolare di quella che allora si chiamava «l'Educazione Nazionale» (sostitutivo della vecchia laica e dimessa «Pubblica Istruzione»). ★ ★ Il «no» alla profferta di Ciano fu tagliente e sdegnato. Intermediario: quel Carlo Silvestri, già redattore del «Mondo» amendoliano, che ritroveremo a Milano nell'estremo crepuscolo di Salò. Risposta di Amendola: «Fra un ammonito politico comunista e un ministro fascista non può esserci rapporto alcuno». Commento, rassegnato, di Ciano: «Ero sicuro che con quel testone non c'era nulla da fare». Più cauta, e meno perentoria, la risposta a Bottai, che Giorgio aveva conosciuto in quel mondo post-fiumano, pieno di fermenti futuristi e dannunziani, in cui si era mossa, fra '19 e '20, la precoce esperienza giornalistica di Giuseppe Bottai, sospesa fra politica e letteratura (e anche cattiva letteratura) per un lasso non breve di tempo. Qui l'intermediario scelto dallo scaltro ministro di viale Trastevere è diverso: la madre di Amendola, Eva Kuhn, un personaggio inserito in una certa società romana, con tutti i suoi capricci e le sue bizzarrie. E' mobilitato anche il fratello Antonio, che ha rapporti coi Littoriali e col Guf, in una linea di fiancheggiamento «ereticale» del fascismo. «Lasciai cadere le proposte, ricambiando i saluti». «Feci bene ad assumere quell'atteggiamento?». E' una domanda che Amendola si pone nell'«Isola», ma che già con maggiori particolari e forse con più acuto tormento si era rivolto nelle pagine, essenziali e scabre, dell'«Intervista sull'an tifascismo». «Qualche dubbio mi è rimasto». «I comunisti spagnoli — amava aggiungere Amendola nelle private conversazioni — sono stati molto più attenti alle contraddizioni del gruppo dirigente fascista». «Bottai — incalzava allora Amendola, questo laico credente nella ragione, in cui T'ungine crociana mai era stata cancellata — alimentava una certa fronda, che egli manteneva tuttavia nel quadro di una fideistica obbedienza a Musso lini». Il dubbio di Amendola mi è tornato in mente scorrendo in questi giorni la vastissima (forse troppo vasta) antologia di «Critica Fascista», la rivista di Bottai durata ininterrottamente dal 1923 al 1943, pubblicata dall'editore Landi a cura di Gabriele De Rosa e di Francesco Malgeri. Tre grandi volumi di un migliaio di pagine l'uno, con un primo volume dei due curatori, di un centinaio di pagine, essenziali — nel loro rigore interpretativo — per inquadrare il quindicinale bottaiano nella storia dell'Italia, e dell'Italia sotto il fascismo. Titolo ambizioso, di netta derivazione turatiana, quel «Critica Fascista» che sembrava quasi nascere dal tronco di «Critica Sociale» e mantenere l'abito dell'indagine critica di fronte a un'ortodossia fondata ogni giorno di più su elementi fideistici e irrazionali, incompatibili con qualunque revisione o correzione dall'interno. E abbiamo voluto posare gli occhi soprattutto sulle annate fra '37 e '39 per capire se Amendola aveva ragione in quel suo dubbio, se esistevano margini — prima dello scoppio della guerra devastatrice — di utili contatti fra il mondo degli in tellettuali antifascisti e quel tanto di cultura che il fascismo controllava, attraverso le arti suadenti di Bottai, un gerarca che non disdegnava la cattedra universitaria, che si era fatto nominare fin dal 1930 professore per chiara fama all'ateneo di Pisa, che aveva incanalato fermenti critici come quelli di n Ugo Spirito ai tempi del convegno di Ferrara del '32, che aveva iniziato da poco, come ministro dell'Educazione, un'azione accorta e calcolata, tutta contrapposta all'azione di rottura e di intimidazione ideologica del predecessore, De Vecchi di Val Cismon. Ma questa collezione dimo¬ sdecqpftcvpstdvqdvlgvlczarpruccpsddlnqtzplnlsss stra che già nel '37-'38 i tempi del «revisionismo» bottaiano erano lontani. Gli accenti di critica al regime sono ormai, o quasi, completamente scomparsi: quel tanto di libertà e di fronda e di inquietudine venata di «perché», che si rispecchiava nei Littoriali, non arrivava più nelle pagine, ormai pietrificate, di «Critica Fascista». L'Etiopia costituisce, sotto questo profilo, una svolta decisiva: dopo, la retorica prevale su tutto. Ciano e Bottai lanciano qualche amo cattivante ai figli dei grandi antifascisti, ma la rivista diretta dal ministro dell'Educazione ospita, il 1° maggio del 1938, un ritratto di Salvemini tracciato da un giornalista fascista, Guido Rizzetto, che ha ascoltato una conferenza dell'esule in un'università americana, talmente denigratorio e insultante da meritare piuttosto le colonne del «Tevere» di Interlandi. «Lo guardai uscire dalla sala con quel suo cranio mostruoso su una faccia cagnesca irta di molti peli e mi parve quasi di svenire nello sforzo immane di trattenermi dal rincorrerlo ed urlargli il mio disprezzo. Mi vinsi: era in me l'idea sicura che così più conveniva, ma non riuscivo ad acquietarmi». Non occorre aggiungere altro. La «moderata liberalizzazione» non verrà mai, e non poteva neanche più venire per la nuova situazione internazionale che vedeva il fascismo italiano secondo ormai, in ogni iniziativa politica, al nazionalsocialismo hitleriano (di qui il rovesciamento di «Critica Fascista» anche sulla questione razziale, dove toni misurati e anche critici della demenza hitleriana erano stati usati fino al '35 ma dove sarà impossibile trovare poi un qualunque distinguo efficace post-1938). * * Il Bottai ministro dell'Educazione sta a sé, con le sue accortezze, con le sue illusioni, coi suoi progetti, con certe «aperture» sempre strumentali a una sua visione del fascismo (come la rivista «Primato») Egli trae una patente «liberale» dallo stesso confronto col predecessore. Nei mesi infuocati in cui sono stato ministro dell'Istruzione, fra marzo e agosto 1979, ho scoperto che esiste ancora, nell'inventario del vecchio glorioso ministero, la gabbia che nell'attico del pomposo palazzo di viale Trastevere ospitava, negli anni di De Vecchi, il leone, leone vivente e ruggente, simbolo della potenza imperiale proiettata sulla scuola italiana. Per chi ha conosciuto Giuseppe Bottai (e io l'ho incontrato poco prima della morte, fra '57 e '58, in casa di Pompeo Biondi a Roma) non è difficile immaginare il sorriso sarcastico del nuovo ministro quando nel novembre '36 raccolse quella successione. Il consenso dei professori universitari, anche antifascisti, era facile: basti pensare alla risposta, sprezzante e liquidatoria, che Mussolini aveva dato ad un gruppo di docenti che protestava, prima dell'avvento di Bottai, per certe incomprensioni o durezze del ministro piemontese ex quadrumviro: «Lo so, De Vecchi è di una granitica ignoranza, ma proprio per questo è il solo in grado di resistere alle camorre universitarie». In realtà il Bottai che è tornato a interessare la storiografia anche anglosassone (si pensi al libro di Alexander De Grand) è soprattutto il Bottai delle origini del fascismo e dei primi dieci anni del regime. La complessità dei filoni culturali e politici confluiti nel fascismo è materia, ancor oggi, di indagine stimolante e ricca di sorprese. La sinistra vi è interessata non meno della destra. Lo stesso Bottai proveniva da un'esperienza di avanguardista futurista, ricca di fremiti sindacalisti e di trasalimenti anarchici. Nel dicembre 1919 aveva fondato un gruppo di arditi repubblicani, non senza contatti con Peppino Garibaldi e coi nuclei più accesi dell'anticlericalismo bloccardo così ramificato in quella Roma di cui Bottai era figlio partecipe e appassionato. Dieci anni dopo, «Critica Fascista» commentava il concordato con Pio XI come «il raggiungimento della perfetta armonia fra la vita e la fede, fra le ragioni del contingente e quelle dell'assoluto». Giovanni Spadolini

Luoghi citati: Etiopia, Ferrara, Italia, Milano, Musso, Ponza, Roma, Salò