Finire le feste sul treno del pianto di Lietta Tornabuoni
Finire le feste sul treno del pianto Finire le feste sul treno del pianto Fine delle vacarne. Espresso Roma-Torino delle 12,05, domenica 4 gennaio. Dieci ore di viaggio: 120 minuti di ritardo, e in confronto ad altri treni sono pochi. Alla settima ora passata in piedi nel corridoio, tra spintoni e insulti, prigioniero degli altri, di valigie ammassate e di bambini buttati sul pavimento lurido, un vecchio signore geme «non mi reggono più i piedi»; e si mette a piangere. Alla decima ora, i discorsi dei viaggiatori vanno molto oltre la protesta esasperata o il mugugno qualunquista: «Altro che chiudere l'Asinara. Spalancarla bisogna, e ficcarci dentro tutti quelli del governo». Nei vagoni strapieni, tra lotte selvagge, gomitate e risse («Me ne frega assai dell'invalido: se è tanto invalido, poteva restare a casa»; salta ogni regola: i posti prenotati vengono invasi, prima e seconda classe si equivalgono, non si vede un controllore. A una si¬ gnora cedono per un poco il posto, e quella non s'alza più: «Non ce la faccio. Mi tiri via con la forza, avanti, provi, che vuol fare, mi vuol mettere le mani addosso?». Per mezz'ora un bambino pazzo di stanchezza grida fortissimo: «Voglio scendere in questo minuto, non ci voglio più stare», e la madre rinuncia a calmarlo. Due ragazze piemontesi beneducate e pudiche quasi piangono davanti al gabinetto, riempito da montagne di valigie e da quattro operai che tornano dal Sud, implorano con vocette ormai disperate: «Capisce, ecco, questo è un posto, insomma, abbastanza necessario...»: niente da fare, anche volendo gli uomini non avrebbero spazio per spostarsi. Per ore e ore i gabinetti rimangono impraticabili, per dieci ore è impossibile bere un bicchier d'acqua o un caffè, mangiare un panino: in teoria il carrello-ristoro esisterebbe. ma come potrebbe muoversi? Fortunatamente gli imprevidenti sono pochi: come negli anni di guerra e di miseria, la gente s'è portata i fagotti da casa. Come in guerra, nei momenti in cui la stanchezza è troppo grande per combattere, ciascuno racconta le proprie sventure, gli episodi ripetutisi dappertutto: siamo in viaggio da quaranta ore, tre ore di ritardo e m'hanno pure fatto pagare il supplemento rapido, siamo rimasti in mezzo alla campagna sino alle otto del mattino dopo, col Natale italiano è finita, io qua non ci rimetto più piede. Ma la guerra non c'è stata, non c'è. Non c'è alcuna emergenza: uno speciale afflusso di viaggiatori che da anni si ripete alle stesse date e con gli stessi modi è la prevedibile normalità; uno sciopero parziale di ferrovieri annunciato da giorni per una data e un'o¬ ra e una durata precisa non è emergenza, è la normalità prevista. Non è successo niente. Eppure, gente che ha pagato anche trentamila lire il biglietto ottiene in cambio di venir sfiancata, vessata, umiliata. Sono vergogne che, al di là della fatica e dell'ansia, provocano guasti profondi. Distruggono l'idea d'una vita normale con l'immagine d'un Paese precario e violento. Cancellano ogni rispetto delle regole di convivenza civile e di legalità, fanno prevalere la legge dei prepotenti, dei più forti fisicamente, dei più scaltri o più strafottenti. Cancellano ogni piacere dalla tradizione delle famiglie disperse che si riuniscono per le feste. E provocano verso i governanti molto più del disprezzo: quel rancore che nasce dal sentirsi, innocenti e paganti, vittime dell'ingiustizia -normale». Lietta Tornabuoni
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