La tentazione di Ankara di Mimmo Candito

La tentazione di Ankara OSSERVATORIO La tentazione di Ankara Osservato agli inizi con intensa attenzione — un'attenzione dove, giova dirlo, le preoccupazioni per la democrazia erano parse inferiori alle curiosità e alla tentazione — il putsch turco è finito ora nel silenzio della normalizzazione. La vecchia Europa, assatanata anch'essa dal male endemico della violenza e dai fantasmi del terrorismo quotidiano, il 12 settembre guardò alla Turchia con minor indignazione che in anni passati: quella sua estrema periferia orientale, ancora a mezzo tra la civiltà mediterranea e il dispotismo asiatico, era diventata una sorta di orrido specchio dei guai del continente, uno specchio dove ogni problema s'ingigantiva (25 morti al giorno per violenza politica: inflazione al 150 per cento; disoccupazione per un quinto della popolazione) fino a fare della società turca una sorta di mostruoso vetrino per ogni studio sulla crisi delle democrazie occidentali. Era conseguente che la rivolta degli stali maggiori di Ankara finisse per godere d'una parziale sospensione di giudizio; e che quel «vetrino» si estendesse a comprendere anche l'ipotesi militare come possibile via d'uscita dalla crisi per alcuni Stati europei. La Turchia come un laboratorio, insomma, ma con la tacita convenzione d'un principio: che, tutto sommato, era meno disdicevole che fossero i militari a macchiarsi degli «obblighi» della repressione violenta; il tempo per la politica sarebbe venuto dopo. A quattro mesi dal colpo di Stato, le condizioni della Turchia registrano — in superficie — elementi positivi, definendo una inversione di tendenza che sembrerebbe corrispondere alle attese di quanti allora giudicavano «inevitabile per salvare la democrazia» l'intervento militare: l'inflazione mostra una buona riduzione percentuale; sono finiti gli scioperi e le agitazioni sindacali; il numero dei morti politici è di 215, quanti «prima» sarebbero stati in una sola settimana. La società turca mostra dunque d'andare verso una sua pratica d'ordine. Ma qual è il costo che paga al suo interno? Trentamila «sospetti» di terrorismo son finiti in carcere, tre giornali sono stati chiusi, uno — il più autorevole, il Ciumuryet — è stato sospeso, 8 detenuti politici sono morti durante gli interrogatori della polizia. Forse sono «costi» giudicati fisiologici a! caso turco, una volta che la soluzione militare sia stata ipotizzala come inevitabile e necessaria. Ma neanche la più rigorosa professione di realismo politico può ignorare che pare essersi avviato ad Ankara un processo la cui reversibilità continua a diventare di più in più problematica: il progetto istituzionale del generale Evren va avanti senza intoppi ma anche senza scadenze, macinando in un unico impasto violenza e cultura, politica e sindacato, tradizioni e liberalismo, rispetto per la dignità della persona. Le dimissioni di Bulent Ecevit dal suo partito — dimissioni che erano un grido d'allarme lanciato all'Europa — sono state assorbite da Londra, Parigi o Roma senza reazioni: la giunta militare continua il suo lavoro senza essere disturbata. Pare di capire allora che anche il modello turco può essere considerato frutto del nuovo tempo. Mimmo Candito Il generale Evren: il suo progetto non sembra avere scadenze

Persone citate: Bulent Ecevit, Evren