La chiesa negra

La chiesa negra SACRAMENTI E TRADIZIÓNI TRIBALI La chiesa negra Circa venticinque anni fa, ebbi ad assistere a un convegno sulla Négritude (il termine da noi suonava ancora nuovo) tenuto a Venezia all'Isola di S. Giorgio. Erano presenti tutte le figure rilevanti della cultura africana, formatesi però fuori dell'Africa, che parlavano un ottimo francese od un ottimo inglese; ma il soggiorno europeo od americano, e forse il ricordo di qualche umiliazione subita, li aveva affezionati più che mai alla terra d'origine, alla esaltazione della patria africana. I negri d'America non partecipavano, ritenendo che i loro problemi fossero del tutto diversi (non si pensava allora a riconquistare le lingue dei padri, dimenticate da varie generazioni, e quelli d'America consideravano volta a volta loro lingua l'inglese o lo spagnolo o il portoghese). Invece in virtù di una madre berbera (che non è négritude) partecipava uno squisito poeta francese, Amrouche, morto troppo giovane per salire alla meritata fama, che ci fece anche ascoltare, al termine di un bellissimo discorso conclusivo, alcuni canti dell'Africa. Dei molti interventi mi colpì uno, sul cristianesimo. La fuga in Egitto del Nuovo Testamento è un simbolo; la Chiesa deve spostare le sue speranze di ringiovanimento dall'Europa scristianizzata, verso l'Africa; per l'africano i Vangeli narrano episodi a lui familiari, si svolgono su un terreno, in una vita sociale che è la sua; il piccolo villaggio, il mondo dell'agricoltura, la pecora perduta e ritrovata, i vignaioli assunti per le ultime ore di lavoro, il servo infedele, il figliol prodigo per il cui ritorno si uccide il vitello grasso, l'indemoniato, il lebbroso, e l'uomo che si vede per la prima volta ma che ha un tale fascino, che si obbedisce alla sua parola di seguirlo lasciando il proprio lavoro, per l'africano potrebbero essere oggetto di cronaca; agli occhi dell'europeo tutto si svolge in un ambiente semifavoloso, ch'egli non ha mai conosciuto. Rispetto all'Africa qual era allora il discorso mi sembrava logico. Ma comunque già era opinione generale che se il cristianesimo voleva affermarsi in Africa, occorreva mutare via; l'eroismo ed il sacrificio di missionari cristiani avevano fondato minuscole comunità, di una stabilità relativa, niente di simile a quel ch'era l'avanzata islamica. Occorreva anzitutto un clero negro; il missionario bianco, anche se santo, per quanto si prodigasse, ricordava sempre il tanto odiato dominatore bianco (e mi si consenta di pensare che quest'odio è stato coltivato con frutto, non sempre e non dovunque fu spontaneo; ad onore dell'Italia, in Eritrea dal primo governatore civile all'avvento del fascismo, essa non fu mai sfruttatrice né oppressiva e diede forse agli eritrei i loro giorni migliori). Clero negro, anche negli alti gradi della gerarchia, architettura delle chiese che s'intonasse con le abitazioni locali, li turgia non solo nella lingua in digena, ma in tutte le modifiche opportune, il tam-tam al posto dell'organo, anche l'introduzione di passi di danza catechismi diversi da quelli usati da noi, dare il bando alle complesse questioni teologi che, in gran parte germinate dall'incontro con la filosofia greca. Una penetrazione molto di versa da quella del cristianesimo presso i popoli dell'Europa centrale, tra il V ed il Di secolo (al Xll se si guarda anche al l'Europa settentrionale), dove la conversione del re portava con sé quella di tutto il suo po polo, pur se questo in effetto continuasse a venerare anche i vecchi dei; e quanti compro messi in queste conversioni mantenute le vecchie feste pagane, dando loro un nome ed un significato cristiano, quanti santi inesistenti creati per continuare ad onorare la tomba d un vecchio sacerdote: tutte quelle tracce di paganesimo che ai nostri giorni la sociologia religiosa di un Le Bras ha posto in luce, quanti santuari pagani convertiti in chiese cristiane. Per l'Africa tutto doveva essere diverso; accettabili anche le Madonne ed il Bambino negri (e d'altronde le images d'Epinal con un Cristo dalla barbetta bionda che pare un gentiluomo appena uscito dalle mani di un provetto barbiere, cos'ha di comune con quella che dovette essere la reale persona fisica di Gesù?). Pio XII e i suoi successori si accinsero con zelo alla creazio¬ ne di questa chiesa africana; abbiamo vescovi e cardinali negri: non allontanati dagli schietti caratteri del loro popolo da una lunga formazione in seminari europei. Il successo apparente di qualche Stato cristiano, od almeno con i cristiache raggiungono la metà della popolazione c'è. Ma quanto dicono questi prelati non può non lasciare nei cattolici europei forti dubbi. Quando leggo sulla rivista dei missionari comboniani che il cardinale Rugambwa afferma che il matrimonio e la famiglia non possono essere divelti dalle tradizioni tribali, che il vescovo Kaseba ha affermato che il matrimonio africano è tutto un cammino, un processo dinamico che si sviluppa tappa dopo tappa fino all'arrivo della sposa nella casa dello sposo e che l'articolazione di queste tappe è fondamentale, che quasi tutti i vescovi sono d'accordo che c'è un enorme abisso tra la celebrazione tradizionale del matrimonio in Africa ed il matrimonio canonico, non mi allarmerei, ricordando che la forma del matrimonio canonirisale solo al Concilio di Trento, e che prima il matrimonio sorgeva con lo scambio dei consensi e diveniva indissolubile col rapporto carnale (onde l'abbondare dei matrimoni clandestini, contro cui la maggioranza del Concilio, sia pure con non pochi dissensi, giunse alla imposizione del matrimonio dinanzi al parroco). Ma quando sento che nessun matrimonio in Sudan sarà stabile se prima non è valido secondo le norme tribali, che un vescovo Obamba afferma che la celebrazione del matrimonio sacramento solo dopo molti anni di vita in comune può diventare sorgente di santificazione; che molti vescovi ritengono che i valori culturali e sociali della poligamia in certe società l'hanno talmente integrata nelle strutture sociali che non può essere frettolosamente cambiata, che l'arcivescovo di Addis Abeba ha chiesto sia sistemata la posizione delle famiglie dei divorziati, mi chiedo quali tagli debba fare la Chiesa nella sua tradizione e nei suoi dogmi per venire incontro a queste esigenze. E se ciascuna delle due Chiese rimane nelle proprie posizioni, potrà ancora parlarsi di una Chiesa unica? Questi sono peraltro problemi che interessano soltanto i cristiani, anzi i cattolici. Ma ve ne sono altri, uno fondamentale che interessa tutti. Così l'esaltazione africana della fecondità, della famiglia con quattordici figli, giustificata in una economia tutta agraria, ma che accresce la crisi di un mondo, che, almeno a parole, vorrebbe l'unità, e comunque ha la realtà di economie collegate, e che è sovraffollato, e sarà tale sempre di più se anche in Africa l'industria assorbirà gran parte della popolazione che ora si occupa solo dell'agricoltura, mentre non può pensarsi che il culto della famiglia numerosa venga meno in una o due generazioni, in connessione con la trasformazione da contadino ad operaio. Ma principale è la forza della tribù e delle tradizioni tribali, che pongono spesso in crisi i singoli Stati africani; «il matrimonio in Congo e in Africa è un'alleanza tra due famiglie» dicono due sposi congolesi, di ceto elevato. Torniamo quindi al «matrimonio degl'impuberi», a questo abbassamento della dignità umana connesso alla non più libera scelta del :ompagno di vita. Ma c'è poi la poligamia; non so cosa pensino le femministe, ma so che in tutto il mondo bianco la si ritenne sempre avvilente, la forma più bassa di affermazione del dominio dell'uomo, come il più forte, il padrone. Nessuno pensa a europeizzare l'Africa (sappiamo ciò che costò all'ultimo Scià il voler europeizzare l'Iran, tanto più prossimo a noi), ma ci sono conquiste, come appunto il matrimonio monogamico, su cui fi dava un generale consenso. Non credo che il mondo bianco accetterebbe la poligamia; ma bisognerà allora concludere che le prospettive di una unità mondiale, non nei dettagli di vita (che devono necessariamente mutare in relazione alle condizioni ambientali, ai climi, alle ubicazioni, alle risorse), ma nei grandi principi etico-sociali, sono una utopia su cui non si deve oltre insistere, e che occorre restare alla ipocrita formula: diversi, ma con pari dignità e reciproco rispetto, che ben conosciamo non aver mai vietato discriminazioni e persecuzioni razziali? A. C. Jemolo

Persone citate: A. C. Jemolo, Bras, Pio Xii