Oro e povertà

Oro e povertà Oro e povertà E' presto per abbozzare un giudizio sulla stagione di prosa, a tre mesi soltanto dal suo avvio. Molto, troppo resta ancora da vedere, sul fronte sia del teatro pubblico che su quello privato: dal Macbeth «musicale» di Carmelo Bene al Tito Andronico di Gabriele La via; dalla Maria SI lumìa di Schiller, regia di Franco Zefflrelll, supcrprotagoniste la Cortese e la Falk, alla Fiaccola sotto il moggio dannunziana diretta da Giancarlo Cobelll; dal 71mone d'Atene di shakespeare-Squarzina alla Minna di Lessing-Streliler; per non dire dell'altro Macbeth, quello di Gassman, o del Riccardo III di Albertazzl, il quale nel irattempo avrà già doppiato il promontorio del Rosales del poeta Mario Luzl. Ne avremo, quest'anno, di spettacoli singoli, sino a luglio inoltrato, senza parlare delle rassegne o dei festival, come Spoleto o Asti. A confronto con quanto promette il secondo semestre, il trimestre d'inverno è certamente risultato più povero di avvenimenti. Tra le poche riuscite, su una trentina di spettacoli recensiti sinora, ci pare giusto ricordare l'iperromantico, scattante Principe di Hamburg di Lavia; la gustosa, vitalissima Brocca rotta dello stesso Ideisi, allestita dal Teatro di Genova. regia di Sciaccaluga; l'essenziale, lucidamente ironico Doctor Faustus di Marlowe, diretto da Ambrosini per lo Stabile Torinese: mentre sul fronte degli scrittori contemporanei la scommessa più rischiosa l'ha tentata e vinta 11 Gruppo della Rocca con 11 «nero., desolato Thomas Bernhard de La forza dell'abitudine. Gli italiani si sono fatti apprezzare pochino (mentre, alla vigilia, sembravano la carta vincente della stagione): il grande Eduardo e i suoi ragazzi hanno fatto una brutta scivolata con Mettiti al passo; il Patroni Griffi drammaturgo ha, in fondo, deluso; la sola sorpresa gradevole ce l'hanno procurata Gaber, Luporini e la Melato con il loro Alessandro e Maria. Ma a parte queste frettolose notazioni, due sono le considerazioni che, magari prowisoroamente, vorremmo fare, ad un ter¬ zo del nostro annuale itinerario. La prima riguarda lo sfarzo e l'imponenza della quasi totalità degli allestimenti cui abbiamo assistito. Non vogliamo fare della facile demagogia, stigmatizzando questa moda del «teatro di maniera grande», macchinoso e assai costoso, in tempi di dura emergenza economica. Equivarrebbe a rispolverare 11 vecchio, ingiusto andante secondo cui in momenti di calamita collettiva i poeti devono abdicare al privilegio di scrivere versi. CI domandiamo semplicemente se non sia possibile tornare ad una concezione della messinscena tea-' tralc più sobria e casta, più elementarmente espressiva. Nella Francia dell'immediato secondo dopoguerra, quando per 11 teatro non c'era molto denaro da spendere, né privato né pubblico, Jean Vilar, che era un grande regista e animatore, propugnò e realizzò un teatro «povero», eppure accorrevano a lui, per paghe assai modeste, 1 migliori attori giovani del tempo, da Soriano a Philipe a Wilson. Ciò mi conduce alla seconda considerazione. Questo teatro del fasto e del prodigio tecnologico-vlsuale è, a contrasto, un teatro poverissimo di attori giovani, sguarnito del tutto di nuove intelligenze ed energie: e continua a poggiare esclusivamente sulla perizia, sul prestigio, sul fascino di un esiguo drappello di Interpreti anagraficamente molto maturi. Tutto questo reintroduce, nel pubblico, una visione distorta del fatto teatrale, in cui regna daccapo l'ottocentesca gerarchla tra gii interpreti, in cui si esaspera di nuovo il mal sopito narcisismo dei mattatori. Se 11 teatro privato, a suo rischio e pericolo, può ignorare questo problema, quello pubblico farebbe bene ad investire qualche centinaio di milioni l'anno (visto che uno. spettacolo sembra che debba costare tra 1 500 milioni e il miliardo), invece che in dalle sue tante produzioni faraoniche, nel problema della formazione, culturale ed espressiva, delle giovani leve. Guido Davico Bonino

Luoghi citati: Asti, Atene, Francia, Spoleto