Maquillage per la figlia di Jorio quasi nuova, ma non è cambiata

Maquillage per la figlia di Jorio quasi nuova, ma non è cambiata Maquillage per la figlia di Jorio quasi nuova, ma non è cambiata TORINO — E' giunta all'Alfieri, a otto mesi dalla prima nazionale a Prato (su cui espressi un giudizio perplesso, ss non negativo), La figlia di Jorio di Gabriele d'Annunzio, regìa e musiche di Roberto De Simone, produzione del Teatro Regionale Toscano, ospite, per l'occasione, del nostro Stabile. Come mi accadde allora, vorrei prendere le mosse dalla scenografia di Enrico Job per dire subito che mi è parsa, di nuovo, totalmente incongrua. Questo pittore-scenografo predilige ilgeometrico e il monumentale e stavolta si è provato con parallelepipedi e rettangoli, disegnando — con occhio attento all'architettura déco, essenziale ed imponente — invece che una «casa rustica» dell'Abruzzo (e sia pure di un Abruzzo immemorìale) un tempio o tribunale o agora elladica, dai grigi pilastri metallici, dai gradini aggettanti. Quél tempio ha lassù, in alto, il suo portale, che, nei secondo atto, ruotando su se stesso, si apre nelle quattro.colonne di una edicola apollinea (dovrebbe essere la -caverna montana» in cui si rifugiano Mila e Aligi): e c'è, incavato nellacò*lonna, un gigantesco angelo déco, da cimitero di Staglieno, che dovrebbe essere l'angelo ligneo òhe Aligi intaglia nel suo religioso fervore. Capisco molto bene che con tanto rigida inflessibilità Job voleva sottrarre d'Annunzio al suo naturalismo decadente, alle tentazioni veristiche da cui la sua tragedia è, di continuo, insidiata: ma è caduto nell'eccesso opposto, ha raggelato la poesia dannunziana in un contenitore non pertinente, astratto e macchinoso. Vengo ora alla regìa di De Simone, che, da quel raffinato folclorista che è, ha letto questa tragedia come la saga di una mitica nostra infanzia collettiva, mediterranea e tribale, e lia tentato di tradurne la partitura letteraria, in vari momenti almeno, in un mosso, drammaticorituale musicale. Questo tentativo di mediazione, audace ma pienamente legittimo, e, quel che più conta, realizzato con assoluto rigore, ci restituisce, tuttavia, solo in parte la straordinaria espressività di questo capolavoro poetico. Nel primo atto (l'atto delle nozze di Aligi e Vienda, dell'irruzione di Mila in fuga, della sua salvazione da parte di Aligi) la mediazione tra parola e musica è assai equilibrata, la collettività, impegnata in madrigali di indubbia freschezza (bellissimo il Canto del Ponte, che è canto di dono e augurio nuziale), non soffoca il dramma dei singoli. Nel secondo atto (Aligi e Mila sulla montagna, il loro mistico vagheggiamento, l'urgere della violenza di Lazaro di Rojo, il parricidio) la musica è messa quasi in disparte, i personaggi danno libero sfogo all'empito della loro passione: e si stagliano, nette le parole stupende di d'Annunzio, questo grande poeta dell'amore e della disperazione. Ma nel terzo atto (il funera-' le di Lazaro, il processo ad Aligi, il sacrificio dì Mila) non solo la musica prende decisamente il sopravvento, nelle forme di un quasi ininterrotto «corrotto» o «cruciato», ma soffoca decisamente la poesia. Ho rivisto e risentito questo terz'atto con il dovuto rispettai ma continuo a considerarlo sbagliato, il vero punto debole di uno spettacolo che, invece, riveduto e corretto in vari punti, scorciato di una mezz'orafe decisamente migliorato rispetto all'esordio, soprattutto nella resa d'insieme degli interpreti. Della statura interpretativa di Edmonda Aldini si è persino impacciati a parlare, tanto questo straordinaria attrice (che, tra l'altro, sa «dire», letteralmente, il verso poetico come nessun'altra) ci restituisce le tre anime di Mila, la preconscia, l'individuale, la sociale (la sciamano; l'amante, la «diversa») con continue, ,calcolatissime metamorfosi di voce e mimica e gèsto. Assai compreso del ruolo è Michele Placido, nei toni rappresi di un Aligt «fanciullino», nella fissità catatonica, nella fralezza di chi vuol regredire nel grembo della terra. Molto più padrona della sua Candla della Leonessa ci è parsa Luisa Rossi, che innerva questa «grande madre» di una secchezza lucida, risoluta. E se Franco Interlenghl ha voce e volto tenorili per la parte di Lazaro, che è, invece, parte di basso, va certo lodato l'impegno con cui l'attore cerca di sopperire al nativo scompenso. A questi quattro interpreti, ai loro quaranta compagni un pubblico partecipe ha tributato applausi a scena aperta e un'ovazione finale. Non è mancato nemmeno stavolta (e duole profondamente registrarlo) il disturbo di un drappello di stupidi incivili, a cui suggeriamo di sfogare, in futuro, la loro intemperanza nel buio di una platea di cinema a luci rosse. Guido Davico Bonino d S Edmonda Aldini e Michele Placido in una scena della «Figlia di Jorio», lo spettacolo di De Simone giunge ritoccato e alleggerito

Luoghi citati: Abruzzo, Aligi, Prato, Torino