Kosinski è una ditta? Cerchiamo il marchio di qualità di Masolino D'amico

Kosinski è una ditta? Cerchiamo il marchio di qualità Lo scrittore accusato di «farsi aiutare» Kosinski è una ditta? Cerchiamo il marchio di qualità DI Jcrzy Kosinski, lo scrittore americano di lingua madre polacca e dal passato misterioso, si è parlato poche settimane fa, quando anche i giornali italiani (La Stampa, in un servizio di Furio Colombo) hanno riferito delle accuse montate contro di lui da presunti ex collaboratori, universitari e letterati minori, che nel passato gli avrebbero tagliato o rimpolpato i manoscritti, e so- prattutto corretto l'inglese; i libri di Kosinski non sarebbero insomma tutta farina del suo sacco. Le accuse non sembrano inoppugnabili, e per ora la reputazione dello scrittore non ha troppo sofferto per lo scandalo. Ma affrettiamoci a dire che la questione ci interessa poco; pare anzi quasi assurdo che qualcuno se ne appassioni, se non a titolo di pettegolezzo. Non soltanto una gran parte dello sforzo della critica moderna ha avuto come obiettivo quello di arrivare a considerale l'opera in sé, come un oggetto indipendente dal suo autore, trovando legittimo individuarvi, per esempio, significati dai quali lo stesso autore si riconosce del tutto ignaro. Ma, per soprammercato, viviamo ormai nell'epoca del libro confezionato da una équipe, della quale colui che si assume la paternità del risultato è in realtà il coordinatore, il regista, il depositario del marchio di fabbrica. Come esiste la ditta Walt Disney esiste, a livello infimo, la ditta Harold Robbins; o, salendo come qualità, la ditta Michener, la ditta Clavcll. Cosa importa chi scrive i libri di Kosinski? Più interessante semmai è cercare di segnalare i tratti che questi libri hanno in comune, quelli che, messi insieme, costituiscono quel marchio di fabbrica: ossia la fisionomia dello scrittore che si firma jcrzy Kosinski. Questa fisionomia esiste, anzi, dimostra ormai di possedere una riconoscibilità sufficiente a risultare pericolosamente in grado di mantenersi fedele a se stessa; di riprodursi cioè senza troppi rischi; di non deludere il pubblico, che una volta accettato un prodotto, non vuole vederlo cambiare. Come beviamo vino inquinato da additivi chimici che servono a mantenere inalterato il sapore da un'annata all'altra, così leggiamo libri di scrittori condannati a ripetersi, a trasformarsi in industria. Il sapore di Kosinski ormai è noto anche ai lettori dei suoi libri disponibili in italiano, almeno cinque o sei a questo punto; ed è un sapore amaro. Tono freddo, spassionato. Mai una vicenda unica, ma una serie apparentemente interminabile di episodi brevi e brevissimi, spesso germinati l'uno dall'altro come le scatole cinesi. Frequente descrizione clinica di atrocità. Presenza ricorrente di un personaggio di «manipolatore»: un agente segreto, un maniaco, un plutocrate capriccioso, che per divertimento o per motivi a lui stesso non chiari influisce, crudelmente, sul destino degli altri (il protagonista del libro odierno si trova a un certo punto in una campagna thailandese dove i carrettieri rincasano la sera dormendo in preda all'oppio, fiduciosi nell'orientamento dei loro asinclli; lui li aspetta al varco, gira la testa alle bestie e dolcemente le avvia nella direzione da cui provengono). Dall'accumulo di questi elenchi di cattiverie emerge di solito il senso di una società priva di centro, disorientata, disperata. Faceva eccezione per qualche punto il primo, famoso romanzo L'uccello dipinto, in quanto non ambientato nel mondo contemporaneo, bensì in una sterminata landa mitteleuropea durante la fase più terribile del secondo conflitto mondiale; c fa eccezione Presenze, da cui fu tratto l'eccellente film Oltre il giardino, che ha atipicamente una dimensione racchiusa, di racconto alla Melville (il Melville di Barlkby); anche se, caratteristicamente, è privo di soluzione finale. Non fa eccezione invece il recente Ali/ero del diavolo, che diremmo si accontenta di rifare il verso dei suoi predecessori, dando segno di una certa stanchezza. L'impressione che Kosinski non sappia più che cosa inventare come cornice alla consueta galleria di piccoli episodi malvagi si crea subito, non appena scopriamo che il protagonista, in apparenza un giovane capellone in jeans e scarpe da tennis, di quelli manganellati volentieri dalla polizia, è in realtà il rampollo di una delle massime fortune d'America. Quando un autore di successo mette in scena un miliardario ci si insospettisce, e ben lo sa Giovanni Raboni, che inca¬ ricato della difesa d'ufficio mette le mani avanti, e inizia l'arringa proprio con questa ammissione. Niente di quanto accade in seguito riesce più a farci cambiare idea. Il ricco e scioperato Jonathan ci narra, in prima o in terza persona, dei tanti piccoli espedienti con cui in varie epoche della sua esistenza ha tentato di estrarrc una reazione dal mondo. Di sue avventure sessuali, di sue vendette, di sue fantasie appagate dal denaro. A quanto pare, è sempre riuscito a realizzare facilmente i suoi peraltro limitati obicttivi, ad eccezione di quello, centrale, di conquistarsi stabilmente l'amore della bella e promiscua Karen, che ricorrentemente lo eccita e lo respinge. Verso la fine, in una sorta di iniziazione rituale — orfano, deve subentrare nella direzione del patrimonio che ha ereditato — si sbarazza dei tutori che si erano illusi di controllarlo, uccidendoli; e, arruolato un cuoco e un sarto, si dispone a fare il suo ingresso nella vita. O, dice Kosinski, nella non vita. Ma lo aveva già detto altre volte, in modo più incisivo. Masolino d'Amico Jerzy Kosinski: «L'albero del diavolo», traci. Bruno Oddera, postfazione di Giovanni Raboni, Mondadori, 272 pagine, 12.000 lire. Jerzy Kosinski

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