Il compagno lingotto

Il compagno lingotto Il compagno lingotto di VITTORIO ZUCCONI Calcola uno specialista giapponese, il dottor Tadayoshi Takubo, che nei primi nove mesi del 1982 l'Uris abbia rovesciato sui mercati internazionali 320 tonnellate d'oro, i volte più del 1980 ( 80 tonnellate) e molto più anche del totale 1981, arrivato a 250 tonnellate. Avvertiva il «Wall Street Journal», che è la «Pravda» della finanza mondiale, il A ottobre scorso: «Nuove e massicce vendite d'oro sovietico sono inevitabili, e attese nel prossimo futuro». E' difficile stabilire con esattezza quanto abbiano ricavato dalla valanga d'oro gli «gnomi» di Mosca dalla mano pesante. Buttare 320 e più tonnellate di metallo prezioso sui mercati — un peso pari alla stazza di un dragamine della Marina italiana — non è come vendere la catenina della nonna all'orefice di famiglia. Ma non si è sicuramente lontani dal vero indicando in 3-4 miliardi di dollari (<i-5 mila miliardi di lire) il ricavo in valuta. Le ragioni che hanno spinto i «compagni dal braccio d'oro» a privarsi di un bastimento carico di metallo prezioso sono ben note: acquisti imponenti di grano (tra 45 e 60 milioni di tonnellate), necessità di alimentare la liquidità in valuta del sistema «Comecon», qualche spesa extra in Polonia e in Afghanistan. In attesa che il «dollarodotto» Siberia-Europa cominci, fra tre o quattro anni, a pompare divise forti in cambio di gas nelle casse del Cremlino, i finanzieri della «Gosbank» e della «Vneshtorgbank» (la Banca di Stato e la Banca per il commercio estero) non hanno altra scelta. L'oro rimane dunque, come per i «Khan» mongoli o per i <kspoti assiri, la sola fonte sicura di finanziamento statale per il socialismo reale. Si capisce come di questo gli apologeti, ufficiali o ufficiosi, dell'Unione Sovietica non parlino mai, preferendo raccontarci le «tremendi crisi del sistema capitalista», le cui banche devono poi soccorrere puntualmente il Cremlino. Ma forse non si tratta solo di imbarazzo fattuale. Su questo trafficare d'oro pesa un lontano anatema leninista, che sarebbe molto diffìcile conciliare oggi con i bisogni reali dell'Urss. «Utilizzeremo l'oro per costruire latrine pubbliche nelle piazze delle piti grandi città del mondo», promise Vladimir Ilych Lenin nel 1921 («Le opere», Editori Riuniti, pagina 1673). «Questo sarebbe l'impiego più giusto che si possa fare dell'oro per le generazioni che non hanno scordato come per esso furono massacrati milioni di uomini». E' vero che nello stesso saggio Lenin giustificava ancora per qualche anno (dicci o più, profetizzò) il commercio dell'oro, e che, come dimostrò Vladimir Bukovski, Lenin ha detto tutto e il contrario di tutto. Ma sono passati 60 anni, non dieci, e il «compagno lingotto» continua a sfamare la Russia. Necessità pragmatiche? Certamente. Ma allora bisogna che al Cremlino si mettano d'accordo: non si può invadere la Cecoslovacchia, mandare in Siberia i dissidenti, imporre Jaruzelski ai polacchi in nome della «purezza leninista» e poi trafficare in oro come un banchiere sudafricano e pretendere alla fine di essere considerati coerenti. Non è vicino, temo, il giorno in cui Walesa potrà servirsi di un vespasiano d'oro, sulla piazza della città vecchia a Varsavia.

Persone citate: Jaruzelski, Khan, Lenin, Uris, Vladimir Bukovski, Vladimir Ilych Lenin, Walesa

Luoghi citati: Afghanistan, Cecoslovacchia, Mosca, Polonia, Russia, Siberia, Unione Sovietica, Urss, Varsavia