Alla Biennale piace la linea italiana

Alla Biennale piace la linea italiana LA SUA OBIETTIVITÀ' VINCE IL GIOVANILISMO INTERNAZIONALE DI «APERTO '82 » Alla Biennale piace la linea italiana VENEZIA — In un padiglione ufficiale della Biennale consacrato per la parte internazionale alla «tradizione figurativa», con i poveri risultati'di cui si è già detto (La Stampa, 13 giugno), non è da stupire che anche Luciano Caramel, curatore della sezione italiana, contrapponga esplicitamente una «tradizione italiana» della contemporaneità alla «dilagante acquiescema a matrici che non ci appartengono» (identificate nell'espressionismo nordico) «in troppi giovani, sulla scia delle fortune degli esponenti della cosiddetta "transavanguardia"»; che è poi il tono che si vorrebbe proporre come prevalente nelle due sezioni «giovani» di «Aperto 82» (perché due, astrattamente dedicate a «Tempo» e «Spazio», e con quali criteri di ripartizione interna, è un mistero). Sgombriamo il campo dalla presunzione e pretestuosità di quel «giovanilismo», in quanto «Aperto 82» presenta sì due ventiseienni. Di Sambuy e Tirelli (il secondo già «referenziato» da Bonito Oli va in «Italiana: nuova immagine» nel 1980 a Ravenna), ma concentra il grosso delle presenze internazionali fra i 44 e i 28 anni, cioè in un arco generazionale che comprende an che otto dei venticinque arti' sti presenti nella sezione italiana, da Ceroli e Gastini da una parte al più giovane, il trentunenne Marcello Jori (altro referenziato, sull'asse del «magico primario» di Ca roli e dei «nuovi-nuovi» di Barilli. nonché autore di geniali fumetti a colori su Linus), dal l'altra. Rimane l'altra contrapposi zdone: la «linea italiana», sotto il patronato di due accoppiamenti, l'uno puramente simbolico (un taglio-«concetto spaziale» di Fontana; una Amalasunta, in sé stupenda, di Licini), l'altro più sostanziale, gruppi di opere, in contatto e confronto fin troppo assembrato, di due capostipiti, del segno-gesto e colore espressivi e drammatici, Ve dova, e del segno-atmosfera lirico. Turcato; e l'avventura internazionale, svagata o sbracata, del post-modernismo, per cui il curatore, Tommaso Trini, a sua volta stranamente svagato fino ad una sorta di disimpegnata indifferenza, lancia l'ennesimo termine definitorio di «Artventure». Sul piano delle intenzioni e inquadramenti teorico-storici, non mi sembra sia da sottoscrivere il richiamo di Caramei a radici nazionali, a contrapposizioni fra un di qua e un di là dalle Alpi quanto meno opinabili e «retro»: non nel testo in catalogo, ma nel comunicato stampa definitivo in imminenza dell'inaugurazione saltava fuori una «cultura europeo-mediterranea» di assai vecchia e assai dubbia intonazione. Le scelte e il timbro generale, sostanzialmente positivi, della sezione italiana mi sembra che avrebbero meglio e più legittimamente autorizzato un'altra e più reale contrapposizione: fra concretezza e impegno sull'opera e lucida e nel contempo problematica accettazione di «essere» e di «stare» nella realtà di oggi, con tutte le sue contraddizioni fra soggettività e oggettività; in una parola la razionalità e la pulizia e anche il gusto o il travaglio del mestiere d'artista; e la confusa e irrazionale esaltazione dell'irresponsabilità, dell'avventurosa «rivisitazione» fine a se stessa, dal neoclassicismo ad oggi. Perché questo scaturisce di fatto dal confronto fra la sezione italiana e «Aperto 82», in prevalenza anch'esso italiano: non un contrasto, che abbiamo visto fittizio, fra generazioni; nemmeno quello del tutto artificiale e artificioso, fra «avanguardia moder na» e «transavanguardia post-moderna»; solo una concreta differenza (di fondo, perché ovviamente non tutto è positivo al Giardini, né tutto è da rifiutare alla Giudecca e ai Magazzini del Sale) fra valore della forma e del serio mestiere contemporaneo e disvalore della facile avventura senza obbiettivi e significati, o con significati eterodiretti, per cui viene spontaneo mutuare dal linguaggio del costume il termine di «casual». Al di là di astratti inquadramenti, le sale e salette italiane tornano con equilibrio nell'alveo delle Biennali del dopoguerra: presentazioni di operatori e di situazioni concrete, da una generazione all'altra, nella vasta griglia dei linguaggi e delle sperimentazioni dell'ultimo trentennio. La purezza mentale della nuda linea dell'Orteson te di un sessantacinquenne protagonista del «concretismo» degli Anni 50 come Nigro è affrontata al tessuto di vibrazione cromatica di un più giovane ma parallelo protagonista (il «Gruopo Origine» di Roma) come Dorazio, che dimostra nell'oggi che cos'è seriamente la pittura-pittura, e nel contempo sembra alludere, con eleganza culturale, alla «rivisitazione» delle astratte cromie decorative klimtiane e neobizantlne presentate proprio alla Biennale nel 1914 da Galileo Chini. Nella stessa sala, la stessa radice astratto-concreta di «Origine» vitalizza, ma in diversa direzione fortemente espressiva e scenica, il grande legno dicromico, giocato fra seconda e terza dimensione di Consagra, che si ripropone come uno dei maggiori valori internazionali della scultura italiana. Più vicini nei tempi e modi culturali, e di nuovo con gran de dignità di lavoro e di ratio progettuale, presentano situazioni di raffinatezza concettuale di corposo compatto «minimalismo» di un cin quantenne come Arlcò (di sensibile qualità grafico-pittorica nei pUsegni progettuali) e l'euclidea allusione ambientale tridimensionale di un trentacinquenne come Coletta. Ottimamente coesistono le filiformi trame monocrome di Pace, riproponenti in aggiornata forma-struttura i mondi magici di un Licini, le viscerali stesure di materia «povera» della Boero (tipico discrimine di qualità rispetto all'ostentata volgarità dell'ultima ondata neoespressionista italo-tedesca), e gli spettacoli cromatici di Gastini. nascenti oggi dall'incontro fra libertà e fantasia del segno e vitalità espressiva autonoma dei supporti — la pergamena, nelle recentissime opere esposte. Altrettanto 'Validi sono equilibril e tendenze nel «figurale»: dalla rinnovata e intricata ricchezza formale che scaturisce in Devalle dall'incontro fra autoanalisi psicologica ed esistenziale (il se stesso/altro come soggetto) e analisi strutturale e cromatica delle tecniche di fotoriproduzione, al grande spettacolo scenico-descrittivo di Schifano, ancor più felice a Venezia che non alle Mura Aureliane di Roma; dall'intelligente, gioioso teatro «popolare» di 10 m x 3 di Pozzati, al fin troppo intelligente, ma comunque autenticamente «dipinto», teatro-racconto-fumetto surrealista alla «Mirò che approda a Parigi» di Luca Alinarl. l'uno e l'altro ancora una volta discriminanti rispetto ai furbeschi infantilismi della voga attuale. Decisamente meno accettabile appare il tentativo di Ceroli di abbinare le sue scenotecniche lignee alla stesura plttorlco-grafica. sotto il segno di De Chirico, di Savinio. degli «Anni Trenta», mentre una statica riproposizione senza novità caratterizza le opere di Tadlnl e Del Pezzo. In negativo, solo «padrinati» vari giustificano le presenze di un anziano informale come Montanarini, di un neoinformale di mezza età come Emblema e di un neoinformale semi-giovane («magico primario») come Notargiacomo. Queste ultime presenze della sezione italiana fanno in un certo senso da ponte per «Aperto 82», che nel suo insieme appare, soprattutto per gli italiani alla Giudecca. una sorta di «Opera di S. Vincenzo» per i vari «post-moderni», «nuovi», «magici primari», «fantastici» di secondo rango. Meglio qualche persistenza neodadaista o neosurrealista, Bucciarelll, Vilmouth. Woodrow, Parmiggiani: le «macchine» due li a ni piane, d'altronde già note, della Aycock ; gli ossessivi incontri progettuali fra Arclmboldo, Bosch, l'anamorfosi e di nuovo Duchamp (con un pizzico di leonardlsmo contemporaneo) del complicato ma sensibile Avalle; i godibili teatrini, fra l'arte del «puparo» e 11 neodadaismo, del napoletano Rezzuti. Sul versante «antropologlco.-arcaistico: di assoluto spicco l'inglese Cox, interessanti l'indiano Kapoor, 11 tedesco Brodwolf, l'italiano Ortelli. Da annotare: Bony, Dimltrijevlc, Isa Genzken, Nagasawa. LUthl; fra i «nuovi» italiani, quanto meno per decoro o eleganza di forma o di Invenzione. Galliani. Benati. Papola e 11 non più tanto nuovo Spoldi. Marco Rosei Pietro Consagra: «Fondale di legno addossato» (Scultura, 1982, esposta alla Biennale)

Luoghi citati: Parigi, Ravenna, Roma, Venezia