In un ospedale di Beirut (dov'è caduta la bomba)

In un ospedale di Beirut (dov'è caduta la bomba) In un ospedale di Beirut (dov'è caduta la bomba) Il drammatico racconto di un medico - «Non avevamo scorte di sangue e abbiamo dovuto chiedere a volontari di uscire, sotto i colpi» NOSTRO SERVIZIO PARTICOLARE BEIRUT — Una striscia di sangue larga sessanta centimetri esce dal reparto bambini, al terzo piano dell'ospedale Barbir. Tra cocci di i>etro e frammenti di apparecchi sanitati. serpeggia fino alle scale, sporcando il pavimento di piastrelle. La bomba israeliana è esplosa a sei metri appena dalle finestre e in alcuni posti il sangue e più scuro del solito, conte se un pittore astrattosi fosse messo a correre, impazzito, con itti burattoIo di ivrniec marrone chiaro. La dottoressa Amai Shamaa sembra ansiosa di spiegate. .E' di un visitatore», dice con quella l'oce clinica che i chirurghi usano quando sono mollo stanchi. «Quando la bomba ha colpito il tetto dell'edificio, al di là della strada, stava In piedi vicino al letto. Ha perduto molti tessuti: potrebbe perdere una gamba... E'un racconto impersonale, clinico, del bombardamento notturno. Amai Shamaa è una donna piccola, con i capelli neri e grandi occhi, e il fiso forte, da medico. Le bombe israeliane sono cadute intorno al suo ospedale per quattro ore; due hanno provocato seri danni ai piani superiori. «Probabilmente l'unico ospedale di Beirut a non essere stato colpito — dice con tristezza — e quello dell'università americana. Tulli gli altri lo sono stati. Non è stalo un errore: gli israeliani sapevano che questo era un ospedale. Anche ch'I spara dal mare o dalle colline può essere più preciso. 11 più vicino obiettivo militare é...» La dottoressa Shamaa si interrompe, sta zitta per sei lunghi secondi, mentre valuta la differenza tra l'emozione e la l'erità. «E' mollo distante», dice poi: Non e vero, invece. Subito dietro l'ospedale, forse poco più di sci metri al di là della strada, c'è un carro T34 danneggiato, un assurdo vecchio leviatano che i miliziani filo nasseriani hanno sistemato dietro un terr ' io di sabina e. tersa, fi punto di incrocio tra j settori orientale e occidentale di lieirut è a poco più di quattrocento metri dall'ospedale Barbir, e le strade dei dintorni sono sorvegliate da guerriglieri palestinesi e da truppe siriane. Ci sono soldati e miliziani che continuano a entrare e uscire dall'ospedale. Un giovane con un lancia-granate e le tasche piene di proiettili se ne sta appoggiato a una colonna di un padiglione. E' la vita a lieirut. In una città che è diventata un campo armato, gli ospedali non sfuggono alla contaminazione politica dei loro pazienti. Il trenta per cento dei feriti che riempiono letti improvvisati e i pavimenti dei piani bassi del Harbir sono guerriglieri, spesso ancora vestiti dei loro abiti da battaglia o stretti in fasce sanguinanti, le facce coperte di bende e le flebo infilate nelle braccia. I loro compagni siedono con loro, i fucili appoggiati al letto, mal rasati, fuori posto tra quelle pareti bianche e l'odore di disinfettanti. Molti pazienti del Barbir hanno dovuto essere trasferiti ad altri ospedali dopo il bombardamento che ha danneggiato l'edificio, e oltre la metà (una quarantina) di quelli che restano sono civili. Dei ventuno portati durante il bombardamento di domenica, la maggior parte aveva ferite di shrapnel. «Non siamo riusciti a usare la camera operatoria dei piani superiori, e quando arrivava gente che aveva bisogno di interventi d'urgenza, abbiamo dovuto trasferirli. Non avevamo scorte di sangue e alla fine abbiamo dovuto chiedere a volontari di uscire, durante il bombardamento, per andare in due centri dove sapevamo che c'erano donatori. E' stata una decisione molto difficile. Ma sono tornati tutti indietro». Sono stati fortunati. Tre feriti portati al Barbir domenica sono morti all'arrwo. L'ospedale ha ai>uto oltre duecento morti dal 4 giugno. In una sola occasione — eia voce della dottoressa Shamaa esprime l'angoscia che prova nel ricordarla — venti corpi sono stati chiusi in una camera mortuaria che poteva contenente sci, e non era possibile uscire dall'ospedale perché fuori cadevano le bombe. «Tutto, qui dentro, sapeva di morte e continuò a sapere di morte per quattro o cinque giorni», dice. «Poi siamo riusciti a uscire e a seppellirli in una fossa comune. Non sappiamo chi erano». I colpi degli israeliani non sollevano solo problemi umanitari. Ccntocinquala persone e alcuni volontari sono rimasti al loro posto, ma altrettanti se" ne sono andati. «Qualcuno se n'è andato per paura, altri non potevano proprio starci. E se ne sono andati». >"'■',,' ' ' Robert 1 isk . ( op> riii(jl (iTinu's Ncn»p:i|H'rsi) e per l'Italia «l.n Kiniiipu»

Persone citate: Barbir, Tulli

Luoghi citati: Beirut, Italia