Eroi del Monte Bego archivio di millenni di Lorenzo Mondo

Eroi del Monte Bego archivio di millenni LE INCISIONI SULLE ALPI MARITTIME Eroi del Monte Bego archivio di millenni Salire a monte Bego, c ritrovare i padri: i padri liguri, i padri celti. Lo si vede da lontano, accucciato nella sua mole rossastra, seguendo i tornanti della strada che, a pochi chilometri da San Dalmazzo di Tenda, sale verso il Vallone della Miniera, la Val d'Inferno e infine la Valle delle Meraviglie. Ed è giusto che, lungo una progressione toponomastica così suggestiva, non venga meno la vista della montagna sacra, ci scruti l'occhio antico della divinità. Pochi sanno, anche tra le persone di buona cultura, che a duemila metri, nella conca dominata dalla vetta piramidale del Bego, si apre uno straordinario museo all'aperto che raccoglie le più ricche e compatte testimonianze delle popolazioni preistoriche vissute a cavallo delle Alpi Marittime. Ignoranza comprensibile, Juando si pensi alla posizione ccentrata del luogo, che si raggiunge con qualche difficoltà (dalla fine della seconda guerra mondiale appartiene alla Francia). Dal punto in cui finisce l'asfalto occorrono infatti alcune ore di cammino, da aggiungere a quelle neces Sirie per visitare il parco archeologico: a meno che non si voglia approfittare, per l'avvi cinamento, dell'unica guida autorizzata e del suo collaudati ssimo fuoristrada che affronta percorsi da brivido. Ci si trova allora in un pac saggio di tenera desolazione Non un albero tra i massi erratici e le colate pietrose (le cosiddette Onde di Roccia), ma sul tappeto erboso spicca no il giallo dei licheni, il rosso e il viola delle rupi scistose, il fresco dei laghi. A partire da tremila anni almeno prima di Qisto, tribù misteriose di pastori e agricoltori s'impadroniscono di quelle pietre levigate dai ghiacciai e v'incidono migliaia di figurazioni che si scoprono e decifrano con emozione profonda, alla luce del sole, in faccia alla montagna. Per che non c'è dubbio che lassù sta il richiamo, sulla cima ferrosa battuta dai fulmini, e che questo fantastico archivio non nasce dal passatempo di pastori transumanti. Ma salivano, i padri, dalle valli del Po e del Rodano, dalle rive del mare (in primavera, il Bego coperto di neve è visibile da An tibes a Ventimiglia), nelle feste stagionali, durante i riti di passaggio, a incidere i loro ex voto sulle pareti immani e franose di quello che doveva essere considerato un santuario nazionale. Scalpellavano e picchietta vano figure tauri formi, i tori del labirinto cretese ma anche quelli delle corride di Spagna, delle arene incruente di Provenza e Linguadoca. Tori, tori, tori (e qualche volta, forse, montoni e capri). Isolati c raccolti in un ordine così sa piente da far ammattire un Capogrossi. Ripresi dall'alto, immobili e con le zampe divaricate verso l'esterno, come se fossero spoglie di animali scuoiati. Ma sono vivi, si affrontano araldicamente, con giungendo i palchi delle lun ghe corna, si accoppiano < sopportano di essere aggiogati all'aratro in quelle che sono ormai diventate vivaci scenette di genere. Raffigurati in modo stilizzato e compendiano, si riducono spesso al puro segno delle corna arcuate che, toccandosi con altre corna, diventano cerchio, gobbe di lune contrapposte. Il residuo naturalismo si decanta in un'astrazione che può risolversi, nel passare dei secoli, in una nuova, recuperata figura tività. Enzo Bernardini, che è tra più appassionati studiosi di questa cultura, distingue varie fasi. Dopo quella preponde rame degli animali cornuti, la fase delle armi: i pugnali triangolari, le alabarde e le fai ci, gli strumenti cioè che scm brano imprigionare il nuovi* simo potere del metallo, l'ala crità iniziatica dell'homo faber che piega al suo volere la roccia e il fuoco. Vengono poi le figure umane, probabile espressione di un culto degli eroi. Alcune sono già diventate famose, viti lizzate nei posters degli ecologi che esigono la protezione integrale della Valle delle Meraviglie, anche contro i cerca tori di uranio. Cè il Capotri bù, con le braccia in atto d orante e un pugnale confitto nella testa (simbolo del suo potere o allusione a un sacrificio rituale?). C'è la maschen barbarica e inquietante del Mago che monta di sentinella tra la Rocca delle Meraviglie e il Bego. C'è il dolente volto «cristiforme», che deriva probabilmente da ritocchi di età medioevalc (basta la coroncina di spine a stravolgere e «battezzare» il ritratto più arcaico). Intorno, pelli di animali stese per la concia, strani reticoli in cui si possono ravvisare mappe di campi e di prati, segni geometrici e dischi solari. Ma e singolare che, fedeli a un sincretismo che è insieme religioso e stilistico, molte di 3ueste figure lascino intraveerc all'origine la forma del bucranio, l'ossessione delle corna aguzze. Monte Bego, come luogo di culto, comincia a decadere intorno al 14 avanti Qisto quando le legioni di Augusto vincono le ultime resistenze delle popolazioni alpine, quando viene eretto a contraltare il trofeo marmoreo di La Turbic. Ma la Valle delle Meraviglie continua a esercitare nel tempo una straordinaria attrazione. Ne sono eloquente testimonianza le incisioni lineari che rivelano, fin dallo scadimento tecnico, la corrosione della sacralità primitiva. Eppure pastori, banditi, viaggiatori, applicandosi al mimetismo grezzo del graffito rendono inconsapevolmente omaggio al vento che soffia in questi luoghi. Un romano lascia una sboccata formula di scongiuro. Un frate cappuccino traccia a futura memoria le linee architettoniche del suo convento. Uomini d'arme disegnano galere simili a quelle che guerreggiano contro i Turchi, stemmi nobiliari, orgogliosi motti: «Malo mori quarti faedari» (meglio la morte che il disonore). Nella vicina Val Fontanal- ba viene rappresentato Napoleone III a cavallo con, sotto, un'intimazione dettata da lealismo sabaudo: «Ti Nopoleon torna i la tua Francia e lassa il Piemonte». E quando lo studio-' so Leon Cougnet arriva alle pendici del Bego, una guidai incide il suo nome accompagnandolo con una stizzosa protesta: «Costui è avaro e spilordo e vigliacco che non mi pagò». I dotti avevano cominciato a scrivere per tempo delle «meraviglie» rupestri. La prima notizia risale al 1460, in una lettera del viaggiatore Pierre de Montfort che, consentendo alle credenze su-' perstiziose delle genti montane, scrive alla moglie: «...è un luogo infernale, con figure di diavoli e mille dèmoni scolpiti dappertutto sulle rocce...». Nasce così una tradizione che troverà il suo massimo esponente,'alla fine dell'Ottocento, nell'inglese Clarcncc Bickncll. Questo mite e gentile pastore anglicano, salito a cercare fiori e piante rare da Bordighera, avrebbe finito per dedicare ogni suo interesse e avere alle incisioni di monte Bego; esplorando, ricopiando é classificando, in un£ parola, rivelando al mondo scientifico l'affascinante mistero. Le ultime generazioni di studiosi, anche con l'ausilio degli scavi stratigrafici e delle tecniche più moderne, stanno diradandolo. Senza intaccare tuttavia l'evidenza che s'impone a chiunque abbia sensi avvertiti: che monte Bego costituisce uno dei luoghi privilegiati in cui un popolo, una civiltà colsero nella presenza del numinoso il senso del proprio vivere insieme, della loro durata attraverso i naufragi della storia. Genti perdute che sopravvivono in un nome di montagna o di fiume, nelle incerte manifestazioni dell'arte e della pietà, nella memoria profonda dei posteri. Lorenzo Mondo Particolare d'una Tavola-roccia sul Monte Bego

Luoghi citati: Bordighera, Francia, Piemonte, Provenza, Spagna, Ventimiglia