Soggetto per un film di Stefano Reggiani
Soggetto per un film Soggetto per un film Fantacronache di Stefano Reggiani «La famosa fabbrica sorgeva poco distante dalla! grande città. Era un capati-' none lungo e basso con poche finestre protette da' un'inferriata. Di giorno sem brava inattiva, quasi deserta.! Ma di sera arrivavano molte macchine, il computer di' controllo all'ingresso lavora- ■ va veloce con un rumore di vecchia sveglia, tic tac, questo va bene, questo è in regola, questo deve ancora depositare il fondo di garanzia. All'interno il direttore riceveva i visitatori uno alla voi- ■ ta, brevi colloqui, non sempre una stretta di mano, !a consegna di una busta. «Era la famosa fabbricai dei casus belli, dei pretesti di guerra. Nell'elenco dei clienti tutte le maggiori nazioni, ma anche Stati molto piccoli che facevano fatica a pagare le quote e a sborsare le somme notevoli al momento dell'acquisto. I casi erano preselezionati dal computer in poche categorie generali; il cliente poteva scegliere abbastanza speditamente. Diceva, per esempio: vorrei una questione di sconfinamenti, vorrei una faccenda di minoranze oppresse, vorrei un piccolo attentato. Il direttore confrontava le richieste con i dati in suo possesso e poi consegnava la bu- ! sta. «Una busta di plastica verdolina, grande e spessa come un quaderno e dentro. c'era il computer nazionale. Bastava che il cliente formasse la sua combinazione e il casus belli era avviato, nessuno poteva fermarlo, l'affi-' dabilità della fabbrica era assoluta. «hi quei giorni nella famosa fabbrica s'erano visti . clienti d'ogni parte del mondo. Un generale argentino aveva avuto delle discussioni1 Intorno a una carta geografica, prima di ottenere piena soddisfazione, un israeliano1 era entrato e uscito dall'ufficio del direttore con la dime-, stichezza di chi si rifornisce regolarmente e non ha biso-' l^gno di dare troppe spiega- zioni. Ma poi c'erano slati in fabbrica anche irakeni ed iraniani, tailandesi e nordvietnamiti, coreani, eritrei e cubani, per non dire inglesi. Inutile, troppa confusione, .perchè non accadesse il disguido. «Il direttore convocò il personale nella sala riunioni, gli tremava la mano prendendo il microfono. Disse: "Sentite, è uscita la busta rossa, per errore. Bisogna ritrovarla assolutamente". La busta rossa era quella del pretesto numero uno, del grande pretesto, dell'immane errore. Stava chiusa in cassaforte, lontano dalle altre buste verdoline. Il direttore chiamò Samuelson (uno anziano, alla Walter Matthau): "Vedi di sbrigartela tu, non mi fido di nessun altro. Devi recuperare la busta, almeno sapere chi ce l'ha". Disse Samuelson: "Obbedisco"». ★ * . Seconda parte del film.' «Sono passate tre settimane. Samuelson è andato nel Libano sconvolto dalla guerra, è stato aiutato nelle ricerche da una giornalista inglese espulsa dal partito conservatore (un tipo non giovanissimo, alla Glenda Jackson), ha parlato con un ufficiale importante, molto importante. Ha anche rischiato la vita. Poi è andato in Argentina, è stato ricevuto con franchezza da un generale importante, anche per merito di una donna non giovanissima, un'ex ballerina (tipo, appunto, Isabelita Peron). Poi è andato in Inghilterra, ha parlato con un rappresentante dell'opposizione e col capo dei servizi segreti, aiutato da una donna non giovanissima, simile per ironia alla Thatcher, molto sensuale e molto ferrea. ("Stringimi, stringimi, hai paura di farmi male?"). «Poi è andato in America, ha avuto colloqui con un personaggio del dipartimento di Stato, importante, molto importante (ammesso che ne sia rimasto qualcuno). Poi, è scivolato, tra donne bellissime, nelle notti di Cuba e negli alberghi esclusivi di Mosca. Ha sentito i canti dei battellieri del Volga storpiati per ubriachezza nelle notti bianche della Nomcnklatura. Ha parlato con un membro del Presidium importante, molto importante. «Sono passate tre settimane e Samuelson s'è perso, non c'è più traccia di lui. Lo cercano i servizi segreti di trenta Paesi, alla grande fabbrica dei casus belli si vivono ore d'ansia attaccati alla telescrivente e al telecomputer. Una donna giovanissima (tipo Ornella Muti) è sempre al fianco del direttore, con uno sguardo torbido e minaccioso. Chi rappresenta? I due padroni? O un terzo padrone? Finalmente una mattina all'alba (nella sala piena di mozziconi e di sonno) squilla il telefono. "Capo, sono Samuelson, ho la busta rossa". "Che aspetti? Portala qui, immediatamente". "No, ho riflettuto, mi sono sempre chiesto che effetto fa avere il mondo in mano, poterlo ricattare e distruggere. Adesso lo so, mi tengo la busta". "Samuelson, imbecille, che cosa succede? Ti rendi esattamente conto della situazione? Sei impazzito?". "SI"».
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