Tutti i ferrivecchi all'Eni

Tutti i ferrivecchi all'Eni Prima la Siiypoi Liquichimica e impero Monti, ora gli impianti Montedison Tutti i ferrivecchi all'Eni 11 prezzo chiesto da Foro Bonaparte (700 miliardi) ha fatto uscire dal suo tradizionale riserbo il commissario Gandolfi Per salvare 10.500 posti lavoro sborsati finora 2300 miliardi Un giorno udimmo con le nostre orecchie due turisti americani domandare ad un cameriere se quel cane a sei zampe che campeggiava sulle insegne dei distributori di benzina esistesse davvero. La risposta fu precisa e imperturbabile: «Certo, sono bestie diffusissime nelle colline attorno alla laguna veneta*. A volte ci chiediamo se uomini politici, ministri, sindacalisti, aspiranti presidenti non abbiano finito per credere anch'essi all'esistenza di questo animale mitologico dalla peculiare caratteristica non tanto di due zampe aggiuntive quanto della capacità di ingoiare nelle sue fauci fiammeggianti qualsivoglia residuo industriale in putrefazione gli venga gettato in obbligatorio pasto. Per quanto paradossale, questa sarebbe pure una spiegazione per la sorda lotta in corso all'interno e all'esterno dell'Eni tra i partigiani dell'acquisto ad ogni costo degli impianti petrolchimici di cui la Montedison vuole liberarsi e chi reputa questa operazione un ennesimo accollo delle perdite di una società, almeno di nome privata, sulle spalle sempre meno capaci del gruppo a partecipazione statale. E' pur vero che questa era la base per il disegno, elaborato a suo tempo dal ministro De Michelis, di razionalizzazione della chimica tra un polo pubblico ed uno privato cui, però, sono venute a mancare alcune decisive premesse. Il progetto presupponeva, infatti, la sottoscrizione dell'aumento di capitale Montedison da parte dei privati (che è rimasta un'inesaudita aspirazione) e l'internazionalizzazione di gran parte della petrolchimica pubblica, che doveva passare in gestione all'Enoxy, società in compartecipazione tra l'Eni e l'americana Occidental. Solo che al momento delle scelte gli americani hanno dichiarato fermissimamente di essere disposti ad assorbire nell'Enoxy solo qualche segmento di particolare quanto rara appetibilità e non certo l'intero «pacchetto»' di Brindisi, Priolo, Augusta er quant'altro Foro Bonaparte vuole scaricare sullo sfiancato cane a sei zampe, che dovrebbe quindi tenersi in proprio l'indesiderata eredità. Ma questo è solo un aspetto della vicenda. L'altro è costituito dal prezzo di 700 miliardi che Montedison chiede all'Eni in cambio dei suoi ferrivecchi, che una commissione di esperti internazionali ha valutato, invece, poco più di 400 miliardi. Una differenza che ha spinto il fin qui silenzioso commissario dell'Eni, Enrico Gandolfi, ad uscire dal riserbo in occasione di un convegno alla presenza di De Michelis per chiedere di «non porre il polo pubblico nella condizione di operare fittizie razionalizzazioni sulla base di attività scartate». La frase ha suscitato un lungo applauso dei manager pubblici presenti ma anche l'irritazione del ministro, convinto della bontà del suo piano. Se, d'altronde, è comprensibile la preoccupazione del ministro di salvaguardare l'occupazione nel settore di cui Montedison vuol disfarsi, c'è però anche da chiedersi, non solo dal punto di vista del «patriottismo Eni» di cui Gandolfi si è fatto interprete, ma da quello della allo¬ cazione delle scarse risorse statali, quanto convenga la gigantesca operazione di rilancio' della petrolchimica pubblica che si sta mettendo in piedi. Infatti non solo nel 1981 la petrolchimica italiana ha continuato a perdere (1000 miliardi), ma la tendenza di fondo delle grandi multinazionali dà per scontate perdite future ineluttabili per gli impianti di base dislocati in Europa. Non è un caso se la più grossa società chimica del mondo, la Dow Chemical, si sta installando in Arabia Saudita. Ora da noi, sotto la spinta non della logica' industriale ma dei partiti, dei sindacati, dei vescovi, delle autorità locali ci si muove nel senso opposto. All'Eni sono state finora appioppate la disastrata Sir di Rovelli, al prezzo di 500 miliardi, e la fallimentare Liquichimica di Ursini, dietro corresponsione alle banche creditrici di 200 miliardi per le fabbriche italiane e di altri 100 per imprecisate iniziative brasiliane. Inoltre mentre in tutta Europa è in atto la corsa a svendere o a chiudere le vecchie raffinerie non più redditizie (ultima quella di Bertonico della Gulf e Mobil) l'Eni è stato costretto a caricarsi dell'ex impero Monti e di una serie di altri vetusti apparati di raffinazione e distribuzione petrolifera che imporranno un enorme quanto inutile sforzo di riconversione. Nel complesso l'esborso dell'Eni — esclusa la minaccia Montedison — è finora ammontato a 2300 miliardi per salvare 10.500 posti di lavoro fittizio perché sorgente solo di perdite passate, presenti e future. Ben altro risultato avrebbe avuto questa spesa se fosse stata dedicata a nuove iniziative invece di tradursi in pseudo investimenti atti a mascherare il fallimento di tutta una politica industriale. Se poi oggi anche l'eredità Montedison finirà in questo calderone non vi è dubbio che l'erario verrà sottoposto a continue pressioni per tenere in vita un settore con costi crescenti e senza prospettive concorrenziali. D'altro canto l'Eni, invece di essere ricondotto alle sue funzioni istituzionali che si compendiano nell'assicurare al meglio i rifornimenti petroliferi e metaniferi del Paese, si ridurrà completamente ad un ente-pattumiera. Non che un buon tratto di strada non sia già stato compiuto in questa direzione, a partire da quando gli venne imposto dal potere politico il regalo dell'ex Egam, ma se una volta tanto il manager pubblico mostra qualche resistenza, quanti non hanno perso occasione per criticare l'assistenzialismo dilapidatorio e, come il ministro De Michelis, per fustigarne gli acquiscienti bojardi, dovrebbero dargliene atto e sostenerlo. Mario Firani

Luoghi citati: Arabia Saudita, Bertonico, Brindisi, Europa