Svagate ragazze di ceramica

Svagate ragazze di ceramica I PIATTI E I VASI DI GIP PONTI ESPOSTI A MILANO Svagate ragazze di ceramica Centocinquanta opere in mostra al Centro internazionale di Brera - Documentano Fattività che il celebre architetto svolse nella più antica manifattura italiana, dove entrò a 26 anni come direttore artistico - Oggi Io riscoprono i postmoderni - Gli oggetti, ormai venduti in aste internazionali, quotati milioni - Grandi famiglie, di personaggi e forme MILANO — Da dove vengono queste generose rogasse languidamente stravaccate su Moccoloni di nubi? Veleggiano sopra un improbabile paesaggio che stipa un campionario di architettura classica; hanno lunghi colli, grandissimi occhi a mandorla e nomi latini che negli anni '40 diventeranno di moda nelle famiglie della piccola nobiltà: Domitilla, Emerensiana, Apollonia, Agata, Fabrisia, Leonia, Donatella, Balbino. Ma di grande nobiltà è il loro pedigree. Figlie di nudi michelangioleschi incrociati con nudi modiglianeschi, sono state tirate su nella Cà brutta di Muzio a Milano; a Parigi han fatto un giro di ballo con Diaghilev e Bachst e si son rifatte testa e trucco sui figurini di Erte e di Poiret; han preso un caffè a Vienna (bei Hoffmann), han trattenuto il fiato in una plassa di De Chirico, e ora eccole qui a decorare un grande vaso di maiolica, esposto al Centro internazionale di Brera a Milano con circa 150 altri pessi in una mostra dedicata alle ceramiche di Gio Ponti. Quando, nel 1923, Ponti fu chiamato alla diresione artistica della fabbrica di Doccia, aveva ventisei anni, e sono stupefacenti la ricchezza fantastica e culturale, la sicurezza di linguaggio e di gusto che il neolaureato architetto seppe dimostrare in questo primo impiego. Forse il genio della ceramica non gli sbocciò improvviso, ci sarà stata una gestasione e ci saranno stati, prima della diresione artistica, altri rapporti con Doccia. La mostra non li documenta. Doccia era, ed è tuttora, la più illustre ed antica mani fattura italiana con continuità d'esercisio. Fondata nel 1737 dal marchese fiorentino Carlo Oinori, rimase proprie^ tà dei suoi discendenti fino al 1896 quando fu incorporata nella società lombarda Richafd che assunse il nò/ne, di Società Ceramica Richard 'OXhoti'. ,'iotl binomio qhe gli 'Mimi "degli Anni Trenta avrebbero imparato a compi tare fin nei water. Ponti non era un ceramista, la sua fu opera attenta e meticolosa di direttore artistico e di designer, come si direbbe oggi, inventore di forme e di modelli, esecutore di disegni che l maestri di Doc eia trasformavano in oggetti di maiolica e porcellana. La collaboratone di-Ponti con la manifattura toscana produsse il più originale contri buto italiano a quel capitolo del gusto europeo che dal ti tolo dell'esposizione parigina del '25 prende il nome di Art Déco. Presenti a Parigi e nelle Biennali di Monza di quegli anni, le ceramiche di Ponti ebbero un rapido successo, divennero di moda: «Li abbiamo ammirati in ceramica, in terraglia, a basso rilievo, a tutto rilievo, dipinti: e non v'è luogo dove non se ne incontri, casa mia compresa», scrire nel 1927 Ferdinando Reggiani parlando dei Pellegrini stanchi e deprecando una caratteristica delle creazioni pontesche, quella di disporsi in serie per numerosissime,.variazioni e filiazioni dei temi iconografici eforma. jjr CQfafpgiistjQSbSfoti-ne& un versò denota già un progettare da industriai design ed t per altro un grato richiamo alcollesionista. Nascono cosi le amabili grandi famiglie di personaggi e di forme, e quelle stesse «rapate rogasse che abbiamo ricordato all'inisio ce le ritroviamo qui alla mostra, in un altro grande vaso, sdraiate, con meno agio stavolta, su giganteschi fiori plissettati; e in una coppa Donatella, ancora, sospesa nelle anse formate da funi ricadenti come su una scomoda amaca. Un altro tema, ancor più vicino al centro della poetica pontesca, è presente alla mostra in quello che fu forse, nel 1925, l'oggetto capostipite (una grande cista, un vaso cilindrico su tre piedini con coperchio, una forma ripescata da Ponti con molta originalità nel repertorio archeologico) e in numerose filiazioni. La conversazione classica — questo è il titolo della cista — raduna un gruppo di eccentrici personaggi vestiti di viola sopra un pavimento di marmo e d'oro a geometrici intarsi lineari che, accennando sbiechi a un invisibile punto di fuga, creano un en igma fico spazio. Tra urne, steli, obelischi, torsi e rocchi di colonne son convenuti, insieme con uomini e donne di più incerta qualità, un poeta, un filosofo, un maestro di danza e, appoggiato a una grande tavola rotonda ingombra di carte, lui, l'architetto. Qui non parla nessuno, ciascuno sta solo colle sue meditazioni neppure disturbate dai ragazzi ruz- zanti con cani e serpenti. Perché dunque conversazione? Un'ironica antifrasi o l'allusione a una spirituale unità di disegni, a una superiore armonia di pensieri? Questo e temi affini come La passeggiata archeologica illustrano bene il neoclassicismo di Ponti. Un gusto senza dubbio influenzato dalla pittura metafisica e che Ponti condivide in quegli anni con altri architetti milanesi come Fiocchi, Pizzigoni, Greppi, Lancia e, primo fra tutti, Muzio. Ma che proprio nel mondo fragile e.dipinte della sua ceramica si"1 dispiegò " con maggiore ricchezza di accenti formali, sentimentali;'letterari, offrendo occasioni e strumenti all'ironia, la sorridente ironia così lombarda che è la musa prima del Ponti ceramista. L'ironiu lo guida anche nell'uso di linguaggi infantili o folcloristici dì cui la mostra fornisce alcuni begli esemplari. L'ironia evoca quegli esseri dei regni intermedi tanto cari alla poetica di Ponti: le socievoli sirene dalla tozza coda bifida e gli angeli, angeli guerrieri, angeli duellanti, angeli innamorati, fino a quello straordinario che spicca in oro brunito sul fondo cobalto d'un piatto e d'una scatola. E' un angelotto in volo visto da dietro.'come in fuga ma con la testa perfettamente di profilo, elegante figura della permanenza di tutto ciò che passa. Il collezionismo e il mercato contemporanei hanno ritrovato ormai da qualche anno le ceramiche di Gio Ponti. Per citare solo alcune delle ultime vendite, ricordiamo che nell'81 alla Finarte di Milano un grande piatto con l'architetto, dalla Conversazione classica, ha fatto 2.600.000 lire, e alla galleria II Ponte due piatti, La conversazione e La lettura, presenti anche in mostra, 3.500.000. Da Sotheby a Firenze, in dicembre, un vaso — anche questo alla mostra — è stato aggiudicato per 1.900.000. Lo scorso aprile, sempre alla Finarte, una ciotola con Donatella sospesa nelle funi è stata venduta per 2.800.000: due figure soprammobili della Conversazione classica, il maestro di danza e il poeta, per 2 milioni; un vaso blu e oro con Ercole e l'Idra per 2 milioni. Anche nelle aste straniere cominciano a essere offerti pessi di Ponti, come la piastrella (2800 FF) Vanno scorso e t due vasi (7500 FF) quest'aprile a Monaco dalla Sotheby. Rispetto al favore del mercato, la critica sembra invece rimasta indietro. E a un risarcimento critico mirano appunto la mostra milanese e il testo scritto da Paolo Portoghesi per il catalogo. «Ponti, dice Portoghesi, se non fu mal In sintonia perfetta con le tendenze d'avanguardia, fu però, almeno in un certo periodo, in perfetta sintonia con la cultura di una città e potè in tal modo incidere a fondo sulla produzione culturale e sulle vicende del gu sto». Eppure la sua figura d'artista è misconosciuta: le grandi storie dell'architettura moderna non ne parlano o la riducono in una funzione di compromesso, di mediazione tra l'antico e il nuovo anche quando, come Bruno Zevi, lo riconoscono «autore di opere per altri versi Interessanti». Responsabile di questo er rore d'ottica storica sarebbe il dogmatismo del «movimento moderno», un termine adoperato da Pevsner, e diventato ormai d'uso comune per raccogliere le tendenze principali dell'architettura moderna, dagli inizi del secolo ai giorni nostri, accomunate dall'assolutismo avanguardistico, dalla rottura con la storia, dal ripudio delle forme tradizionali, della decorasione e dell'ornamento. A togliere Ponti, e altri ar¬ chitetti •moderati», da quel limbo è venuto il post-modernismo. Con questo termine, coniato dal critico inglese Charles Jencks, si indicano le tendenze opposte alle sopraddette: ripresa quindi del colloquio con la storia e la tradizione, metafore, citazioni, eclettismo radicale, pastiche, ironia. Tendenze che hanno, cominciato a manife.starsi negli Anni '60, soprattutto in America, e che in Italia hanno avuto una clamorosa presentazione con la Strada Novissima all'ultima biennale venesiana, diretta appunto da Portoghesi. A quella strada Ponti — soprattutto il Ponti delle ceramiche — avrebbe potuto benissimo appendere la sua insegna, e ciò dimostra come nel gioco alternativo di gesti avanguardistici e gesti retro sia facile passare dal ruolo dell'epigono a quello del precursore. Una mostra a tesi, dunque, e purtroppo (come spesso accade nell'abbondanza di mostre fatte un po'per spettacolo e un po' per «aprire un discorso culturale»; con poca cura dell'informazione: l'esposizione non dà cenno dell'ordine cronologico degli oggetti e neppure il catalogo; che abbonda di testi—offre a quello di Portoghesi ce n'è un altro di Anty Pansera —, ha belle illustrasioni, ma è senza schede per i singoli pezzi. Una mostra, ci dicono, nata in «area socialista». Un'area socialista sarebbe quella — piazza Formentini — dove sorge la chiesa sconsacrata che la ospita; all'area socialista apparterrebbe la casa editrice SugarCo, che ha pubblicato il catalogo. Ma certamente capitalistico è il prezzo del catalogo, e per di più d'un capitalismo un po' arruffone: costava 45.000 lire nei primi giorni, poi un ravvedimento l'ha abbassato a trentacinque. Mario Spagnol Ciio Ponti: «La conversazione classica», grande vaso in maiolica alto ottanta centimetri