Nell'Egitto della grande delusione di Bernardo Valli

Nell'Egitto della grande delusione La pace raggiunta con Israele appare a molti scomoda e perfino umiliante Nell'Egitto della grande delusione Begin, si dice al Cairo, ha fatto di tutto per rendere sgradevole la restituzione del Sinai - Gli intellettuali rifiutano di allacciare un dialogo con gli israeliani per la mancata soluzione dei problema palestinese e il timore di un boicottaggio culturale - Industriali e commercianti non vogliono compromettere i rapporti economici con Paesi ricchi di petrodollari - La diffìcile posizione di Mubarak DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE IL CAIRO — Nei giorni della grande umiliazione, questa raffinata intellettuale egiziana, studiosa di letteratura araba e anglo-americana, era a mia conoscenza la sola persona, nella metropoli mortificata, che osasse esprimere un desiderio proibito, a quel tempo scandaloso per i suol connazionali: visitare Israele e conoscere gli israeliani. Adesso che la pace tra i due Paesi è stata fatta, mi dice invece che «mai e poi mai andrò in Israele».' Siamo in un ristorante di Ghiza. La grande piramide di Cheope spunta a stento da dietro le brutte case sfacciatamente costruite al limite del deserto. Il Cairo si gonfia,' si espande, rischia di inghiottire anche la Sfinge, già. umiliata, ogni sera, dallo spettacolo « Suoni e luci».. Quindici anni fa, c'era soltanto un filare d'alberi che faceva da schermo fra le Piramidi e quest'angolo di campagna devastata. L'Egitfo aveva subito la severa sconfitta della -guerra dei Sei giorni» (il Sinai perduto e l'esercito in decomposizione), e la colta, sincera cairòta sentiva la necessità, non soltanto la curiosità, di vedere in faccia i nemici, di incontrarli. Diceva che tra chi si uccide per decenni, con tanta tenacia, si crea quasi un legame di parentela, di fratellanza nell'odio reciproco, un sentimento di inimicizia che, raggiunto un certo grado di intensità, può anche sfociare in unJimprowisa comprensione. E' accaduto spesso nella storia. Quello sperato contatto è fallito. Si è concluso con una delusione, prima ancora dell'immaginato viaggio in Israele. Quel doppio categorico »mai->, pronunciato con calma, senza asprezza, proprio com'era stato espresso il desiderio di 15 anni prima, è significativo. La pace, spiega l'intellettuale egiziana, è stata fatta in modo troppo umiliante. Gli israeliani hanno fatto di tutto per renderla sgradevole: l'arroganza del primo ministro Begin fino all'ultimo istante, prima di re stituire l'ultima porzione di Sinai, l'insistente simultanea repressione dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, il disprezzo per gli arabi che trasuda dalle dichiarazioni e dalle azioni del governo di Gerusalemme! sTutto 'questo; dice, non fa certo rimpiangere le guerre, ma rende difficile la pace, e comunque impedisce a molti, ai più, di andare in Israele. Il prof. Hussein Fawzi costituisce senz'altro un'eccezione. Mi dicono che sia stato il solo grande intellettuale egiziano ad avere accettato un invito in Israele. Ex preside della facoltà di Scienze dell'Università di Alessandria, sottosegretario alla Cultura nel periodo nasseriano e autore di un libro apprezzato, sull'identità egiziana (Sinbad almasrìA è andato a ricevere solennemente una laurea honoris causa all'Università di Tel Aviv. Altri scrittori di prestigio hanno incontrato degli israeliani di passaggio al Cairo. Ma il fatto che si citino i loro nomi (in particolare quelli di Naghib Maghfus e Tewfik el Hakim, entrambi noti romanzieri) rivela che si tratta di avvenimenti rari. Questo rifiuto dell Intellighenzia ad allacciare un dialogo con gli israeliani sarebbe dovuto allirrisolto problema palestinese, ma probabilmente, per alcuni, anche al timore di subire il boicottaggio culturale dei Paesi arabi, dove vengono messe all'indice le opere di artisti e scrittori che hanno rapporti con lo Stato ebraico. I sentimenti della studiosa di letteratura araba e anglo-americana sarebbero tuttavia assai diffusi, anche se stimolati da motivazioni diverse. In altri, l'estremismo religioso è spesso determinante. In altri ancora, la milizia politica. Non in lei. ' E' lei stessa a mettermi onestamente in guardia dal pericolo di generalizzare. Compie un gesto ampio con la mano, non per scacciare le mosche di Ghiza, numerose e moleste come i turisti, ma per indicare la complessità degli atteggiamenti egiziani nei confronti di Israele, e anche della pace tanto discussa. Quest'ultima sono ormai in j p^^ia^rifiuUixla. I ranghi degli intellettuali che un tempo volevano strappare gli accordi di Camp David si sono assottigliati, con la restituzione dell'ultima parte della penisola del Sinai. Sono aumentati, invece, coloro che criticano certi aspetti degli accordi. Anche perché adesso non si corre più il rischio di andare in prigione, come all'epoca di Sadat. L'intellighenzia non può non tener conto che la massa degli egiziani, pur essendo stata ostile alla politica interna del Presidente assassinato, considera la pace sadatiana e il recupero del Sinai (sentito anche da nazionalisti nasseriani) se non proprio una conquista, un successo, per lo meno qualcosa di meglio della guerra. Molti pensano che nessun altro Paese arabo, nel frattempo, è stato «tanto furbo» da ottenere di più. Maè inutile cercare slanci di amicizia verso. I Israele ( di Meriahenr, Begin. Le statistiche rivelano che. soltanto duemila egiziani, negli ultimi due anni, sono andati a visitare la nazione ebraica, e che almeno SO mila israeliani sono invece venuti a vedere le Piramidi. Gli egiziani che avrebbero i mezzi per compiere il viaggio1 sono in gran parte quelli che fino a ieri si opponevano alla pace e che adesso la criticano. Se tra gli intellettuali il problema palestinese costituisce l'ostacolo maggiore, tra i commercianti e gli industriali c'è il timore di compromettere i rapporti economici con il mondo arabo, ricco di petrodollari. Le statistiche sono pure in questo campo rivelatrici: l'Egitto esporta in Israele per circa 600 milioni di dollari di petrolio del Sinai (come esigono gli accordi), ma importa da Israele molto poco: nel 1980 dodici milioni di dollari di banane, mele, uova, pulcini, semi di soia- Subito dopo il viaggio di Sadat a Gerusalemme (1977), l primi israeliani arrivati al Cairo furono abbracciati e colmati di gentilezze. Quelle effusioni sono state mol'o effimere. Si sono spente da un pezzo. Di un gruppo di turisti israeliani sportivi, efficaci, in maniche di camicia, un egiziano davanti al mio albergo dice: «Mi ricordano i russi». Sulle sue labbra non è un complimento. I cittadini dello Stato ebraico non sono più detestati, ma non ancora amati. Lo saranno un giorno? E' difficile immaginare, oggi, quel che saranno i rapporti tra II Cairo e Gerusalemme, dopo quattro guerre e una pace. Questo Egitto è in un periodo di transizione. Hosni Mubarak non è ancora un vero raiss, un capo che con il suo carisma può imporre la propria volontà, e neppure un autentico zaim, un capo che esprime la volontà popolare. Sarebbe yn^Presi- dente non classificabile, mi dicono, nonostante i raffinati sostantivi a disposizione per definire chi detiene il potere in Egitto, Paese di antica tradizione au tocra tica. E' l'erede di Sadat e tale si dichiara, ma non ricalca passo per passo la politica del suo predecessore. Non si ispira a Nasser, ma ha avviato un dialogo con i nasseriani, anche se alcuni di loro considerano un «atto di giustizia» l'assassinio di Sadat. Comunque, Il ha liberati dalle prigioni in cui'Sadat li aveva rinchiùsi. Nella patria della Sfinge si è spinti a un facile paragone. Tuttavia sarebbe sbagliato considerare Mubarak un personaggio enigmatico. E' semplicemente un uomo di buonsenso, che tiene alla vita. Anche la posizione dell'Egitto, che Mubarak governa ormai da sette mesi, è indefinibile. Il Paese è rimasto fedele alla pace sottoscritta da ■,r.i-t:- ,-v».»ia.i--ft. ■ i'/f> Sadat con Israele. Ma quella pace assomiglia più a una distensione forzata che a un'intesa cordiale. E' fredda, talvolta glaciale. Mentre non è più caldo il conflitto politico con gli altri Paesi arabi, ai quali l'Egitto di Sadat aveva voltato le spalle e riservava insulti quotidiani. Da alcuni mesi affiorano numerosi sintomi dello scontato riavvicinamento. Llneluttabllità del ritorno in seno alla -famiglia araba», per lo meno la sua componente moderata, era iscritta nel futuro anche ai tempi di Sadat. Adesso è un obiettivo dichiarato. E' sempre viva, inoltre, la stretta alleanza con gli Stati Uniti, ma nell'Alta Valle del Nilo, alla diga di Assuan, sono ricomparsi una settantina di tecnici sovietici, che Sadat aveva cacciato. L'Egitto è un corpo malleabile. L'egiziano è il colosso del mondo arabo, ma è anche un colosso d'argilla (dice l'arabista Jacques Berque). Non nel senso che avrebbe i piedi d'argilla. Le sue radici, al contrario, sono profonde e solide. Ma la materia storica di cui è composto è plasmabile. Si adegua alle situazioni e ai tempi, si trasforma, evolve in apparenza con lentezza, in realtà con una rapidità che gli consente di avere sempre un notevole anticipo rispetto al resto del mondo arabo. Adesso questo Egitto è in movimento. Dove stia andando probabilmente neppure Mubarak lo sa. Da qui la sua prudenza. L'assassinio di Sadat, nell'ottobre '81, non aveva precedenti nella storia egiziana. Mal un Presidente, un raiss, era stato ucciso. E forse mai morte di raiss ero stata accolta con tanta esibita indifferenza dagli egiziani. La legittimità del nuovo Presidente si basava, al momento dell'investitura, sul fatto che Sadat l'aveva nominato vicepresidente, scegliendolo tra i generali (d'aviazione) della guerra del.73, fra gli espo¬ nenti delle Forze Armate che alimentano periodicamente l'alta tecnocrazia egiziana.. Personaggio senea particolare smalto, senza affiliazioni politiche utili e privo di una base popolare, Mubarak si è dovuto appoggiare sulle forze del vecchio regime e si è subito impegnato a continuare la politica di Sadat, in particolare nei confronti di Israele. Al tempo stesso, per contenere le tensioni sociali provocate dalla politica economica di Sadat — e forse all'origine della clamorosa indifferenzapopolare all'annuncio della sua morte violenta —, Mubarak ha preso l'abitudine di consultare gli esponenti dell'opposizione di sinistra (nasseriana), alcuni dei quali appena usciti di prigione. E da allora nelle grandi occasionicome U ripristino della sovranità sul deserto del Sinai, depone fiori sulla tomba di Sadat e su quella di Nasser. Si destreggia tra la continuità voluta dai sadatiani e il cambiamento reclamato dai nasseriani, con un equilibrismo tanto ragionevole quanto precario. C'è chi considera Mubarak un uomo abile, e chi lo considera invece un uomo pacifico, bonario, che non vuol pagare il potere con la vita, come il suo predecessore. Il pericolo è annidato al di là del Sinai- recuperato, nei territori occupati dagli israeliani: è il problema palestinese. A ogni palestinese ucciso in Cisgiordania e a Gaza, a ogni incursione sul Libano meridionale, dove si trova il grosso dei guerriglieri palestinesi, Mubarak viene sottoposto a una prova: deve condannare repressioni e rappresaglie israeliane per non compromettere il riavvicinamento con i Paesi arabi, ma non deve andare oltre un certo limite per non compromettere la pace con Israele. Egli dovrà essere l'avvocato dei palestinesi, ma non diventare l'accusatore intransigente degli israeliani, quando si discuterà dell'autonomia dei territori occupati, come prevede il trattato di pace. E se il governo di Gerusalemme continuerà nell'annessione rampante di quelleterre, il buon Mubarak dovrà forse tagliare il nodo gordiano, che ora cerca pazientemente di sciogliere, con le sue mani, pur sapendo che non è scioglibile. Bernardo Valli Yamit (Sinai). In questa foto del 18 aprile scorso, pochi giorni prima della restituzione della penisola all'Egitto, si vedono giovani ebrei ortodossi in preghiera: contro la decisione di evacuare la zona molti estremisti religiosi avevano minacciato il suicidio in massa