Com'era l'Italia di Scelba di Vittorio Gorresio

Com'era l'Italia di Scelba UNA BIOGRAFIA CHE DEMOLISCE MOLTI LUOGHI COMUNI Com'era l'Italia di Scelba Era stato Togliatti a raccomandarlo a De Gasperi come ministro dell'Interno - Al Viminale si trovò assediato dagli estremismi sovversivi, con una polizia inesistente - E mentì strenuamente per salvare la fragile Repubblica, guadagnandosi la fama di gran bugiardo nazionale - Oggi il giudizio è più meditato Sceiba, una volta, era chiamato il Settebello della democrazia. Erano i tempi, trentacinque anni fa, che le nostre fragilissime istituzioni repubblicane avevano bisogno di uno strenuo difensore che all'occorrenza sapesse dimostrarsi spregiudicato, dotato di coraggio (anche fisico) e fosse quind' capace di tener testa agli Macchi massicci provenienti da destra e da sinistra contro lo Slato democratico, allora bambino e ancora privo delle brutture fondamentali. Sceiba, che per tutto il p< riodo della dittatura fascisi era stato un pacifico avvocato di modesta carriera professionale perché non iscritto al pnf, ma tuttavia stimatissimo come «parerlsta» (uno cioè che su richiesta fornisce pareri, e in questo era molto bravo, succinto e acuto, rigoroso e ineccepibile), si rivelò l'uomo giusto, al momento giusto, al posto giusto. Non molti sanno che a raccomandare Sceiba a De Gasperi come ministro dell'Interno in febbraio del 1947 fu il segretario del partito comunista Palmiro Togliatti. Ai suoi occhi, l'avvocato siciliano, sicuro antifascista anche in virtù dei suoi precedenti politici di segretario di don Sturzo ai tempi del partito popolare e poi mai compromesso col regime, aveva il merito dell'uomo «loicon e ragionevole, Assunto al Viminale, dovette accorgersi che tutto era da fare da capo. La polizia avvilita, male attrezzata, disorganizzata, quasi inesistente o per lo meno poco affidabile: mancavano le scarpe per gli agenti, la razione viveri era insufficiente, le paghe irrisorie, e i commissariati non avevano in dotazione neppure biciclette. La prima relazione che il generale Giuseppe Picche, un tecnico piemontese della pubblica sicurezza, fece a Sceiba di fresco insediato, fu nettamente pessimistica: a suo giudizio, lo Stato non disponeva di forze sufficienti per fronteggiare un'offensiva dei partiti rivoluzionari se questi mai avessero avuto l'intenzione di tentarla. «Generale — commentò Sceiba freddamente —, stando cosi !e cose, ce fossi comunista io farei la rivoluzione domattina». Tutto, anche allora, si risapeva perché il nostro Stato anche allora era aperto alle talpe, e infatti corse voce che Giancarlo Pafetta aveva dichiarato che uno Sceiba Settebello della democrazia avrebbe fatto gola anche al partito comunista: -Se alla fine di una legislatura — disse Pajetta scherzando con serietà — si usasse fra 1 partiti, come fanno le società di calcio, di mettere in lista di trasferimento alcuni dei loro campioni, e se tra questi ci fosse il Mario Sceiba, noi cercheremmo subito di assicurarcelo con un buon ingaggio». Sono propositi evidentemente paradossali, ma è utile conoscerli oggi che il caso Sceiba è presen ta to da Corrado Pizzinelli in una biografia edita da Longanesi. In realtà il volume — che è eccellente — porta una fascetta rossa al traverso della copertina, dove si legge l'imbarazzante quesito: «Peggio l'Italia di Sceiba o quella di adesso?». Francamente, l'interrogativo è del tutto fuor dì luogo, incongruo e stolto quanto basta; che sia un richiamo pubblicitario efficace può darsi, ma il libro di Pizzinelli avrebbe meritato una presentazione, direi, meno banale. E' un libro molto serio (e che pertanto rifugge dal Sempliciano dei paragoni incomparabili) e d che si svolge ed è condotto, a mio parere (se «parerista» posso essere considerato anche io, come Sceiba a suo tempo), su due piani distinti. C'è innanzitutto un'attentissima ricerca biografica a riguardo di Sceiba e le annotazioni in proposito come gli aneddoti in via generale sono una scelta in cui appare tutto il gusto sicuro di Pizzinelli in funzione di storico per quei significativi «mentis faits» che piacevano a Taine. Ma c'è anche molto di più, perché la panoramica degli aneddoti viene in realtà a mostrare il vero sottofondo dell'Italia scelbiana. A leggere bene la storia di Sceiba (e la biografia di Pizzinelli è certamente un'ottima introduzione all'argomento) i troppi luoghi comuni accumulatisi in proposito finiscono per dileguarsi senza lasciare traccia, ma non per questo è vano o è superfluo, sulla scorta del libro di Pizzinelli, fissare alcuni punti fermi. Sceiba fu uomo di sinistra o di destra? La distinzione è in sé e per sé abbastanza stolida, ma chi volesse applicarla alla persona di Sceiba si troverebbe di fronte a insuperabili difficoltà. Per esempio si sa che ci fu un suo progetto di riforma agraria nel quale era stabilito che la proprietà dei fondi agrari, in mancanza di un erede diretto (da padre a fig 'io, ptr la precisione), sarebbe stata devoluta allo Stato Come esempio del diritto l'i successione è abbastanza eloiuente. Ma Sceiba arerà anche diversi altri punti propri: personalmente coraggioso perché integerrimo (e al riguardo Corrado Pizzinelli fornisce documenti di inconfutabile certezza), l'idea di Sceiba sul tema del grande confronto tra comunisti e anticomunisti e tra fascisti e antifascisti era di una chiarezza cristallina: «Che sia ben chiaro: per principio non sono né antifascista né anticomunista. Io sono un democratico, e sono quindi per conseguenza e non per principio — tutta la differenza sta qui — anticomunista e antifascista. E non ho altro da dire ». // personaggio Lo straordinario personaggio che fu Sceiba, Pizzinelli ce lo delinea, ce lo presenta, ce lo raffigura mettendo a frutto le proprie qualità di eccellente biografo, di politologo ben provveduto e finalmente — last but not least — di cronista molto elegante nel racconto. Sono ad esempio mirabili le pagine in cui si parla di Sceiba come del gran bugiardo nazionale. Stanno bene alla pari delle altre pagine, già ricordate, di uno Sceiba cooptato dalpci. Convinto come era che lo Stato italiano non avrebbe potuto resistere ad un attacco eversivo delle forze rivoluzionarie in quegli anni difficili, molto opportunamente incominciò a negare che sussistesse la minima possibilità del minimo sovvertimento: •■Non era il caso di far sapere — mi spiegò un giorno, da furbo — che lo Stato non aveva la forza di tutelare l'ordine». Perciò tutte le volte che in Parlamento deputati di destra e conservatori gli contestatavano notizie di preparativi pericolosi, di occultamenti di armi, di disordini in corso. Sceiba negava impavido. Per quasi tutto il 1947 — che in Italia fu un anno difficilissimo — non fece altro che smentire tutti i giorni. Le grosse bugie che diceva a Montecitorio, e che faceva stampare dai giornalisti die andavano a intervistarlo, non si contano. Le reticenze, le omissioni, i suoi silenzi sulle armi nascoste che la polizia non aveva i mezzi — né quindi il coraggio — di andare a ricercare assicurano a Sceiba un posto tra i maggiori simulatori di tutti tempi. Naturalmente ciò va inteso in senso buono, dato che egli era tale a fin di bene. Ma i benpensanti che non capivano il suo gioco, e che erano apppena usciti dalla grande paura del 1945 al momento del trionfo della Resistenza, si domandavano angosciati: possibile die sia così cieco? E lo tenevano per un buono a nulla. Ci volle tempo — e Pizzinelli lo documenta molto bene — perché Sceiba si acquistasse la fama che poi doveva renderlo gradito a tanta parte dell'opinione pubblica (o alla cosiddetta maggioranza silenziosa) e che gli valse d'altra parte di essere considerato dai comunisti il nemico pubblico numero uno. Togliatti evidentemente si era sbagliato raccomandando a De Gasperi di nominare Sceiba ministro dell'Interno: ora lo dichiaravano il nemico del genere umano, su per giù. Sceiba comunque non aveva fatto nulla per stornare dal suo capo la condanna. La sua prima dichiarazione ufficiale di guerra contro la sinistra, «quegli uomini che come una lebbra sono nell'organismo dello Stato per dissolverlo», reco infatti la data del novembre 1947, quando si teneva a Napoli nel teatro San Carlo il secondo congresso nazionale della democrazia cristiana: «Ma se 11 momento dovesse giungere — concluse allora —, useremo la forza dello Stato contro ogni tentativo di violenza». «Belva umana» Era questa la bella promessa che molti attendevano da tempo, e che Sceiba aveva tardato a formulare, perché mai prima di allora si era sentito in grado di mantenerla. E' quindi da quel giorno per via della promessa e forse anche dell'accenno alla lebbra, che la popolarità di Sceiba si accrebbe in modo impressionante in doppio senso, e cioè negativo e positivo in uguale misura. Cominciò ad esser considerato, in Italia ed all'estero, l'alfiere della grande armata anticomunista e di converso i comunisti si accanivano a dipingerlo, come Pizzinelli ricorda, nelle spoglie e in assetto di nemico numero uno del genere umano. Io stesso, un giorno che ero andato al Viminale per intervistarlo, ebbi occasione di dirgli: «Lo sa. onorevole ministro, che cosa ho letto su un muro venendo qua? Ho letto: "Morte a Sceiba, la belva umana"». Sceiba si mise a ridere. Sapeva degli epiteti con cui lo bersagliavano, che tuttavia non riuscivano a turbarlo. Pare che avesse fatto compilare una statistica, sulla base delle segnalazioni che gli giungevano dalle questure, e gli era risultato che la qualifica più volte ripetuta contro di lui fosse «Jena». «Boja» veniva al secondo posto, con un certo distacco da «assassino», e poi seguiva una lunga iuta di espressioni più generiche. Denotavano tutte, in ogni modo, scarsezza di fantasia nei loro autori: «Questa mancanza di inventiva accomuna — mi disse—i fascisti ai comunisti. So che si copiano le scritte gii uni dagli altri, a meno che non siano diretti da una centrale che abbiano in comune». Era il presagio del Grande Vecchio, venuto ora di moda, e Sceiba discorrendone aveva nella voce quasi un accento di melanconia. Era la noia che provava, dotato com'era riccamente di spirito e di humour, di fronte alla marchiana stupidità: «I comunisti sanno benissimo che tutto possono Imputarmi, ma la ferocia no». Una volta, a quattr'occhi, lo aveva contestato a Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della Cgil, venuto a protestare per incidenti sanguinosi capitati nel corso di dimostrazioni di piazza: «Tu pensi che io sia quell'orco sanguinario che tu ed i tuoi compagni mi accusate di essere? Dimmi la verità, ora che nessuno ci sente». Quell'onest'uomo che era' Giuseppe Di Vittorio abbassò gli occhi sema rispondere, ed i piccoli occhietti di Sceiba ebbero un guizzo di soddisfazione. Vittorio Gorresio

Luoghi citati: Italia, Napoli