La morte recita a Staglieno di Guido Ceronetti

La morte recita a Staglieno LETTERE DALL'ITALIA: VIAGGIO FANTASTICO NEL CUORE DI GENOVA La morte recita a Staglieno Il porto, un tempo crocevia di esotiche suggestioni, ora è un'immensa gru che nasconde il cielo, le navi imbottite di containers sono ferraglia silenziosa • La città ha perduto i colori, i magici crocevia, è diventata una metropoli mezzo sudamericana mezzo nordeuropea - Qualcosa dell'antico fascino orientale e «femminile» cantato da Dino Campana resta soltanto nella necropoli GENOVA — Staglieno! Staglieno! Necropoli senea fi- > ne, paradiso del necrofilo mentale, giardino accademico dell'animista ateo! Staglieno, porto sepolto, sotterraneo, alle spalle della città portuale! Suo padre, il Père-Lachaise, ha più. misura, è fatto come un regolamento, un'accademia militare, si è rinchiusa nei suoi viali una società più potente, più compatta, decisa a tenersi tutta per mano e a fare muro contro il tempo sotto il segno del due amanti del Paracleto, Abelardo ed Eloisa, la coppia di intellettuali sepolta in parole nella Patrologia del Migne e in ossa che si baciano e ribaciano sotto il tempietto neogotico di Parigi, ultima loro follia. Al Père-Lachaise, dove si è dissolta la fragilità dei vivi, tiene mirabilmente la forza, l'energia, la fame di durare, la misteriosa volontà di patema dei morti. Aspettate a dire che la Francia è nella sua amministrazione; cercate prima nell'ombelico del Père-Lachaise il segreto della sua forza. Ma Staglieno è più inaspettato, più incredibile, più fantastico. La diga del progetto originario del Barablno, una sobria pianta quadrangolare dominata da un cappellone neoclassico, sì rompe presto e il fiume dei morti sommerge la collina, le anime per placarsi pretendono sterminate gallerie, colonnati, boschetti sacri, ambulacri di Dedalo, templi egiziani, e un diluvio, un oceano, un'atlantide di statue, di bassorilievi, di altorilievi, di busti, di medaglioni, di epigrafi spudorate, di gruppi statuari senza ritegno che raccontino di loro tutto. Staglieno è un'enorme confessione collettiva, uno dei più grandi spettacoli del teatro della Morte; si possono passare giorni (notti, ancora meglio, nascondendosi in qualche cappella), settimane intere ad ascoltare quelle tirate, quei monologhi, quei battibecchi su chi ebbe più meriti, su chi ha più ammassato patrimoni celesti, e sempre ti direbbero dell'insolito, dell'inaudito sulla nullità, il vuoto, la miseria, la stupidità inarrivabile, l'assurdità perfetta, la disperazione infinita che i nostri gusci d'osso nascondono per vomitarli davanti alla faccia del cielo. Le sue voci Se le pietre romaniche cantano, le statue di Staglieno recitano: sono drammi glacosiani, ibseniani, ferrariani, scapigliateschi, verghianì, bracchiani, dannunziani, pirandelliani, labichiani, feidoiani, strindberghiani in una confusione da onde her¬ tziane che s'incrociano e accavallano, sovraccariche di voci e di rumori. Niente è meno silenzioso, di questo cimitero inesauribilmente sonoro. Il Père-Lachaise è maschio e occidentale. Staglieno è femmina e orientale, come Genova. Ha il disordine, la smania d'invadere e di straripare con attiva pigrizia, di tutti gli Orienti. I suoi morti sono stati i cittadini orientali di un regno nordico; cessati i doveri verso il re piemontese, si liberavano di ogni freno in morte. 'Irraggia lo splendore orientale i Genova nelle donne dalla testa / Sibillina...» cantava sotto l'artiglio del Delfico, Campana. Le sue prodigiose visioni di Genova sono visioni d'Oriente. Ma non vedremo mai più la Genova orientale campaniana, anche se qualche donna 'dalla testa sibillina», con nei capelli «un po' d'alga marina» si può forse incontrarla ancora, nei cortili e nei caruggi. Campana, l'aedo di Marradi, è il sublime poeta di Genova. Montale è il metafisico del paesaggio ligure: il suo verso, proprio perché di scrittura mataflsica, lo assume per disintegrarlo, se ne slega, non lo trattiene. Campana non è metafisico, è un Villon dei porti, un superbo lettore dell'anima di un porto — Genova. Per girare nel porto, più che del lasciapassare del commissariato, è necessario munirsi dei versi campaniani sulla notte portuale, sul porto che si addormenta: 'E' la forza che dorme, è la tristezza i Inconscia delle cose che saranno i E' la vita che cullasi nel ritmo i Affaticato: Tutto è detto; infelice chi non capisce. Senza marinai Ma quei versi servono soltanto al pensiero e al sogno. Il porto, com'è oggi, è scoraggiante... Dal mare e da terra, gli occhi che lo cercano non 10 trovano più. Il porto può anche emigrare a Voltri, nel Duemila, o nei fiordi, o in Australia: il porto di Genova non è più. Dov'è l'Oriente? Dov'è il colore, spia dell'anima delle cose? Di notte, dall'alto, dal largo, il porto è quella curva luminosa che si sfalda in segmenti e puntini tracciata dal compasso del golfo, niente di più banale, se non ti sostiene l'immaginazione: «Ld c'è il porto». Prova a cercare un marinaio, laggiù, un vero scaricatore, e balle di mercanzia, o navi piene di gente in lacrime! Il porto è una immensa gru che nasconde il cielo, le navi sono ferraglia silenziosa, imbottite di containers, quasi mai vedi affacciarsi qualcuno, sono deretani di minerale dove non sembra agitarsi neppure un oxiuro... Il saluto umano, l'addio umano, spariti... I traghetti non sono navi, sono garages; gli ufficiali avviliti di essere alla testa di equipaggi di camion, di condurre in Sardegna, a Tunisi, a Palermo famiglie di roulottes, tribù di Fiat, di Alfa, di Peugeot, popoli di Michelin, città di Pirelli, cortei di Land Rover, generazioni dì trattori, qualche volta con passeggeri sistemati nel cofano, tre o quattro nordafricani, due mezzi genovesi, un magliaro turco, una maestrina di Cagliari, un neonato abbandonato lì dalla madre, fuggita su un'altra Citroen verso i Pirenei, in tutto così pochi che la Tirrenia non perde tempo a contarli e a fargli pagare il biglietto, né la Finanza a controllarne il bagaglio. Sul ponte, quando le navi partono, si agita una chiave inglese, un pneumatico che non ha voglia di emigrare si sporge triste dal parapetto. Ma dal molo chi gli risponde? 11 braccio di una gru, ma soltanto durante l'orario sindacale; mai di domenica. L'Oriente genovese è da riinventare... bisogna farlo risorgere dall'invisibile, andarlo a scoprire nelle Madonnine (tante Kalì e Annapurne) ancora sospese ai muri che fatiscono, nelle navi di pietra cariche di balle di pietà cristiana ancora non disertate dagli equipaggi dei devoti; farlo schizzare fuori dai libri, ascoltarlo in una cadenza dialettale. Credevo di detestare le cadenze liguri: dopo una settimana di immersione nei superstiti odori delle friggitorie di Genova mi penetrava l'orecchio come una guzla araba, col contrappunto solare di un tamburo semita. In quell'accento che strapiomba sul mare, dove attira e fa precipitare l'idea la funerea sirena della u, che si ripete fino al trionfo del sonno in cui dolcemente tutto farà naufragio, c'è come una tranquillità di contemplativi, un pessimismo ascetico e lontano. Oh perché così presto? Perché tanto in fretta? Sappiamo sappiamo che il Tempo mangia la vita, che il Tempo ha fame di tutto e non lascia vivo niente, ma questa metropoli mezzo sudamericana mezzo nordeuropa, sporcata dai gas siderurgici, il porto recintato da una sopraelevata, il cemento che sbaccanaleggia impaziente intorno alle ultime case di Portoria e di piazza Sarzano, luoghi di meraviglie, quadrivii magici, la vergogna dell'anonimato verticale che soffoca e strazia la sublime distesa delle ardesie — perché tutto d'un colpo, in pochissimi anni, ha rovesciato l'Immagine di una città vera, di un mondo autentico, l'ha sbrindellata, l'ha dispersa? Dunque a Staglieno, a Staglieno. Il caos della necropoli ci vendica dell'Oriente laggiù perduto, dove la meìopea campaniana non trova più nella sera ambigua 'l'alito salso umano», e -nel gorgo di fremiti sordi» l'odore di stoccafisso e il traballare delle mandòle Staglieno è intatto. La Morte non delude chi l'ama. (Almeno un poco: il tanatofobo, se esiste, è un amputato psichico, che non può correre sui sentieri degli elisi). Staglieno affascina, ma è il fascino della demenza... Mi veniva un pensiero terrificante: se davvero dovessero risorgere, e risorgessero così come appaiono nelle scultu¬ re, coi loro angeli custodi, V loro cristi di languore, tra lo sgomento degli ultimi viventi, come la terra sopporterebbe il peso di tanto delirio? Per lo più sono morti in pace, confortati dalla Religione, autorizzati dalla Scienza, tra le lacrime dei Congiunti, dopo vite probe, probissime — perché, in morte, sfogarsi in così scomposti deliri? Forse perché Staglieno è femmina, un piagnone, anzi una prèfica, isteria che si scatena al contatto del sepolcro, braccia che brancicano, labbra che succhiano, e ha un'anima di baccante, una febbre dionisiaca nelle vene, proprio lì, a due passi da un Bisogno al di sopra di ogni sospetto. Rachellna, mori a diciannove anni nel 1918: 'Il tuo vergine corpo riposa qui ma l'anima tua gode coi beati» confessa l'epigrafe. Su uno, Euterpe piange lacrime di coccodrillo: 'Tutto amore per l'arte che gli fu ispiratrice di elette e profonde armonie ne ritrasse splendida fama ma da quell'ardore ebbe consunta innanzi tempo la vita». Un Carlo Orazio «corse Europa e America lasciando ovunque desiderio di sé», ma non è difficile quando, per correre, non si resta ospiti a lungo. »A Giuseppe Soldi negoziante»...' M'impressiona un'Antonietta Noceti »che alla scuola di G. C. imparò l'eroismo che la tenne sempre serena» per via di quelle due iniziali, che sono quelle del mio povero nome, scritto sull'acqua piovana. Davvero, alla mia scuola sarebbe possibile imparare uno speciale eroismo che mantiene sempre sereni? Se fosse così, morrei senza dispiacere, contento della mia. giornata. Quelle porte di marmo, chiuse e semiaperte, presso a cui il Defunto sosta, esitando, incuriosito e atterrito, o è condotto di peso da angeli robusti come infermieri di vecchio manicomio — sono, del fantastico macabro, a Staglieno, uno dei motivi più misteriosi... Fessurine sulla voragine, aperture sul precipizio, mi attirate morbosamente... Se non foste di marmo, vi spingerei dolcemente, tentato di guardare... Nel porticato superiore il monumento più morboso è quello di Raffaele Pienoni, 1879, delllnuguagliabile scultore Villa. Una donzella, più curiosa che disperata, certamente la figlia del Pienovì, solleva leggermente il lenzuolo che copre, elegantemente sgualcito, il caro defunto fin sopra la testa, poggiata su due bei guanciali di malattia. Che cosa vede, la signorina Picnovi? Ebbe una curiosità' simile il marito di Emma Bovary, nella camera mortuaria, lei tutta velata di bianco, tra i ceri lacrimanti: 'Lentamente, con la punta delle dita, palpitando, sollevò il velo. Ma gettò un grido d'orrore In un romanzo ci viene detto quel che succede dopo.* un grido, e poi il resto della storia... Ma la sospensione del gruppo statuario è qualcosa d'immenso, il mistero si chiude inesorabilmente. Il gruppo essendo un poco in alto, il visitatore non vede quel che c'è sotto il lenzuolo... Potrebbe non esserci niente? Non c'era nessuno... Sono salito, ho guardato... Non no gridato. Non dirò quello che ho visto. Guido Ceronetti