Le conquiste polacche d' Ungheria di Frane Barbieri

Le conquiste polacche d' Ungheria Le conquiste polacche d' Ungheria Il Primate, Lekai: «Qui i problemi sociali sono risolti, la Chiesa non deve combattere» - Kadar è «una grazia divina» - Ma l'equazione benessere-libertà non è dimostrata: é il leader magiaro, non il sistema in sé, a garantire i margini di tolleranza Il sindacato ha il diritto di veto sulle decisioni dell'azienda e può dare un'opinione sul direttore - Verso l'autogestione C'è diritto di sciopero, anche se non applicato - E c'è quel sabato libero che tanti drammi è costato alla Polonia sto tutto e in anticipo, avremmo precluso le vie del compromesso-. Un giudizio curioso lo da su Wojtyla: quando è stato eletto si temeva che imponesse la linea polacca, ma poi, riconfermando Casaroli, il Papa ha mostrato di apprezzare la politica dei piccoli passi. Lo avrebbe confermato anche monsignor Poggi visitando Budapest proprio in questi giorni. L'interpretazione ecclesiastica de! miracolo ungherese coincide in fondo con le tesi marxiste sul kadarismo: dal benessere nascono gradualmente anche la libertà e la democrazia. Il concetto polacco, quello della Chiesa e di Solidarnosc, era invece capovolto: libertà per conseguire il benessere. Un giudizio sommario darebbe oggi ragione agli ungheresi. Tuttavia, nemmeno la miracolosa arcadia magiara offre prove sufficienti che dal benessere materiale si sfocia automaticamente nelle libertà timocratiche. Il riformismo quasi ingegnoso in campo economico non ha intaccato minimamente la sfera politica e sociale. E' lo stile pragmatico (con un tocco di distacco scettico) di Kadar che dà al sistema quei margini di tolleranza, non sono certo le istituzioni ideocratiche. A questo punto bisogna vedere da un lato se il benessere manterrà per sempre i livelli necessari per attutire le spinte politiche e sociali, e dall'altro lato se sia concepibile che attorno a una macchina economica efficiente non sorgano esigenze di un'adeguata struttura politica. Di fronte all'incognita, l'idea paneconomista entra in crisi. Me lo rivela l'accademico Bognar, un caposcuola degli economisti: «Oro si prospetta la necessità di trasferire l'economia dello Stato verso la società. Non ho fiducia nei regimi senza contraddizioni che stavano nelle idee utopistiche del secolo scorso. Le contraddizioni devono essere messe in luce, perette lo Stato si basa sullo nazione. Agli eco¬ nomisti invece non piace la nazione, piace lo Stato. Non scordiamoci però che non tutti gli Stati hanno una nazione, e non tutte le nazioni hanno uno Stato. La stragrande maggioranza è conscia della nostra situazione migliore'rispetto ai vicini, ma si presentano esigenze nuove, anzitutto fra i giovani che non hanno la mentalità e la memoria dei vecchi. Questo sottolinea la necessità di andare verso una maggiore libertà. In una società rigorosamente disciplinata ciò non è possibile». Assorti nel girare e rigirare 11 cubo di Rublk dell'economia, i governanti sembrano in netto ritardo nel prospettare una riforma politica. Alcuni pensano che basti dare più contenuto democratico alle strutture esistenti, altri che occorre far scaturire nuove forme di democrazia dalla stessa inquietudine della gente. Cosi dice Renvi, membro del Comitato Centrale: «Sarà anche un'idea eretica, ma penso die una crisi possa essere anche positiva, perché abbatterebbe il modo dogmatico di pensare». Non sono pochi, infatti, ad avere il sentore di una prossi¬ ma crisi. Non tanto per effetto del morbo polacco, quanto per le scarse possibilità di mantenere alto il tenore di vita. Il governo programma un arresto sui livelli attuali, crescita simbolica dell'I per cento; ma i prezzi correnti non confortano queste previsioni. Come governare i conflitti e anticipare i fermenti? C'è paura dell'eccesso nell'ordine ma c'è anche paura dell'eccesso nel disordine. Fra 1 giovani e gli intellettuali ufficialmente non esiste 11 dissenso. Di fronte ad alcuni tentativi di contestazione ha prevalso sempre l'argomento: «Jvon creiamo difficoltà a Kadar». In compenso si allargano i limiti di tolleranza nell'espressione artistica: nelle riviste letterarie, nel teatro e anzitutto nel cinema (significativi i film di condanna del periodo di Rakosi). Negli studi e nelle scienze, l'economia ha soggiogato invece la sociologia e la filosofia. Per un paradosso, sulla torre critica di Lukàcs è rimasto quasi isolato l'ex primo ministro staliniano Hegedus. Non si intravedono su questo versante né un Kor ungherese né la rinascita dei circoli Pe- tofy, lievito intellettuale della rivolte del 1956. Anzi, l'intellighenzia subisce il giudizio del partito, secondo il quale quei circoli furono «couf del revisionismo controrivoluzionario». Mentre fra gli intellettuali non si registra la rinascita di idee veteromarxlste, quelle dell'alienazione umana, ossessione del Marx giovane e germe del dissenso della nuova sinistra, nelle file cattoliche emerge la contestazione paleocristiana. I vescovi sono alle prese con parroci contestatori. Sono un centinaio, raccolti attorno al prete Bulanyi. Rivendicano «il ritorno alla preghiera» e criticano i vescovi per essersi integrati nello establishment. Questi «intransigenti» (che sarebbero circa centomila) nel giudizio del prete-deputato Varkonyl sono «sovversivi, contro l'episcopato ed il socialismo». Di più: «Falsamente pacifisti». Lekai ha già messo in guardia il clero dal seguire Bulanyi, richiamandosi più a Kadar che alle encicliche papali. • Rimangono i sindacati. Chiedo al segretario del Consiglio nazionale del sindacati. Solyom, quale lezione sia stata tratte dalle vicende polacche. Risponde: «Ci indicano che ormai non si può decidere sugli operai sema gli operai». Anche per l'Ungheria «c'è bisogno di un nuovo movimento sindacale»; nascerà però in seno all'esistente sindacato ufficiale, e non dallo spontaneismo operaista (condannato già nei giudizi sulla rivolta del '56). Alcune misure sono state adottate in questo senso: per esempio, il sindacato ha il diritto di porre il veto su tutte le decisioni della direzione d'azienda riguardanti il salarlo e le condizioni del lavoro; il capo del sindacati fa parte del «quadrumvirato» che determina la politica dell'impresa ed è composto dal direttore, dai segretari del partito, della gioventù comunista e del sindacato; ogni anno, infine, il sindacato esprime al ministero il suo giudizio sul direttore, giudizio che può ma non deve influire sulla sua riconferma. Ma il nodo centrale del contrasto fra Walesa e Jaruzelski, quello di chi nomina il direttore, in Ungheria è stato affrontato? Praticamente no, in quanto vige la regola di Ja- ruzelski: lo Stato è proprietario dell'impresa, e di conseguenza nomina i direttori. In un libro del presidente del sindacati e membro del Politburo, Gaspar, ho letto però che In prospettiva le fabbriche tenderanno a diventare cooperative degli operai, come quelle degli agricoltori, e non viceversa. Mi spiega Solyom: «Infatti, la linea è di socializsare le imprese anzitutto nella gestione, lasciando allo Stato le sole direttrici generali di sviluppo». Allora, il direttore è rappresentante dello Stato o del collettivo? «Per il momento la valutazione è mista. Dove la partecipazione è più ristretta, lo vedono come uomo dello Stato, ma vi sono già esempi in cui il direttore viene considerato come esponente del collettivo. Abbiamo posto all'ordine del giorno la questione della nomina, l'opinione del sindacato è già il primo passo». E l'autogestione, altro scoglio polacco? Dice Solyom: «Noi non diciamo autogestione, anche se in pratica ci sarà». Non lo dicono per curiosi motivi: nella rivolta del '56, l'autogestione è stata la bandiera dei rivoltosi delle grandi fabbriche, ora proclamati controrivoluzionari, ispirati dai revisionisti jugoslavi e dagli Imperialisti occidentali (lo dice la storia del partito pubblicata per il 25° anniversario della rivolta). Alla parola autogestione, poi, sono allergici i sovietici, sia per il caso Jugoslavo che per quello polacco. Nei grandi cantieri di Budapest cerco di verificare come funziona in pratica questo nuovo meccanismo. L'azienda è autonoma nella misura di un terzo dei profitti che le rimangono a disposizione dopo che lo Stato si è preso i due terzi. Il direttore si sente un interlocutore a pari livello del ministro. E il sindacalista nei confronti del direttore? Oli domando: «Avete mai usato il veto?». «No, però ha già una funzione poterlo usare». «Avete scioperato?». «No, il diritto di sciopero esiste, ma noi non lq consideriamo, troppo felice per .il socialismo».->Avète espresso il vostro giudizio sul direttore?». «SI, già per la quarta volta». «Positivo?». «Sì, ci sono più problemi laddove dovrebbe essere negativo. In questi casi spesso non viene espresso». « Pensa te all'auto gestione? ». mDa noi è chiarito il compito della direeione, non c'è divisione né confusione di compiti. Questo non esclude che sul plano e sulla ripartizione dei profitti il sindacato deve essere consultato. Noi abbiamo il compito di stimolare le forse produttive, perché esigere il salario sema produrre adeguatamente non è logico». Un sindacato, Insomma, che potrebbero Invidiare gli altri operai dell'Est, ma ancora di più gli imprenditori dell'Occidente. La dialettica sociale più intensa risulta essere ancora quella che divide i tifosi dell'Uspest dai tifosi di Ferenevarasz, anche perché Kadar ha avuto l'accortezza di non dichiarare le sue preferenze in campo calcistico. In fondo, nelle istituzioni monopartitiche e monoideologiche del kadarismo la più democratica, aperta e tollerante rimane ancora la stessa persona di Kadar. « Un vero miracolo divino» secondo il prete-deputato Varkonyl. E, secondo l'ideologo del partito Renyl, «l'uomo che non ha ideato ma intuito questa linea che ci ha portati fuori dalla terribile confusione. Uomo di volontà ferma, di nervi saldi, decisivi in polìtica, e dello spirito di gradualità, dei piccoli passi in avanti». L'unico pericolo per il kadarismo è che gli avvenimenti a volte possono procedere a passi più grandi. Il timore me lo esprime un politologo, in un disinvolto sabato libero concesso da Kadar, mentre per un sabato negato da Jaruzelski sta crollando la Polonia. Frane Barbieri

Luoghi citati: Budapest, Polonia, Ungheria