Oggi il Sinai cambia bandiera, comincia la pace fredda di Bernardo Valli

Oggi il Sinai cambia bandiera, comincia la pace fredda Senza abbracci e senza cerimonie Israele restituisce all'Egitto il deserto come fu conquistato quindici anni fa Oggi il Sinai cambia bandiera, comincia la pace fredda DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE GERUSALEMME — Mente abbracci, niente strette di mano, niente discorsi protocollari fra egiziani e israeliani, stamane, per celebrare l'ultimo atto previsto da un trattato di pace ette ha messo fine a trent'anni di ostilità ritmati da quattro guerre: la restituzione della penisola del Sinai. Lo scarno programma fa pensare che la pace non si addica ancora a questa terra: quando si concretizza, sia pur parzialmente, appare sofferta, dolorosa, sema tracce di gioia. Nel Sud della penìsola, di prima mattina, a Ofira (che domani riprenderà il nome arabo di Shàrm el-Sheikh) gli israeliani ammaineranno la loro bandiera. Poi arriveranno gli egiziani, la cui sovranità comincerà ufficialmente a mezza notte. Nel Nord del Sinai tutto si svolgerà In modo ancor più banale. A Rafa i soldati israeliani si ritireranno a mezzogiorno al di qua della rete metallica che divide già in due la città, e i poliziotti egiziani arriveranno poi con le loro garitte. Forse ci sarà qualche gesto spontaneo, individuale, ma né l'egiziano Mubarak, che resterà al Cairo, né l'israeliano Begin, che resterà a Gerusalemme, lo hanno programmato. Questa esibita mancanza di festeggiamenti rituali rivela il dubbio, l'angoscia israeliana. Più che alla pace, sia pur limitata all'Egitto, si pensa alla rinuncia del Sinai, il grande spazio conquistato 15 anni or sono, che allargava gli angusti orizzonti della nazione ebraica. E poi c'è il sospetto. Il Sinai, dicono gli israeliani dubbiosi, l'abbiamo occupato tre volte (parzialmente nel '48, nel '56 e nel '67) e lo abbiamo restituito tre volte. Questa volta abbiamo ricevuto in cambio una pace duratura? Che cosa sarà l'Egitto di Mubarak a partire da domani o dopo Mubarak? Amico? Neutrale? Ostile? Insomma, non ci sarebbe motivo alcuno per rallegrarsi. Del resto, anche Menahem Begin ha esitato sino all'ultimo. Lo ha confessato lui stesso ai deputati del suo partito venerdì sera. Prima di decidersi a far evacuare il Sinai alla data prevista ha voluto che gli egiziani ribadissero, ancora una volta, il loro impegno a rispettare tutte le clausole del trattato. Il carattere «provvisorio» del compromesso sulle nuove frontiere rivela quanto l'atmosfera sia inquinata. L'atteggiamento del mondo arabo, è vero, non è promettente, non è rassicurante. Un silenzio sinistro ha accolto la notizia che Israele mantiene la parola data. Al Cairo, che celebrerà con un giorno di festa nazionale e con una parata militare il recupero del deserto perduto nel '67, è arrivato un solo messaggio di felicitazioni: quello del sudanese Nimeiri. Per gli altri, quel re-\ cupero è il risultato di un baratto vergognoso. Nel frattempo, alle Nazioni Unite, i Paesi arabi si concertano per chiedere l'esclusione d'Israele. Lo spirito di Camp David non ha trionfato. Dice lo scrittore Uri Avnery, tutt'altro che un «falco», tre volte deputato della sinistra alla Keneseth e do tempo favorevole ad un dialogo con i palestinesi, che la paura e il sospetto Israeliano sono basati su motivazioni oggettive e soggettive. Le prime sarebbero dovute al fatto die la sicurezza del Paese resta problematica, anche dopo la pace con l'Egitto e la sua probabile neutralità nel caso di un nuovo conflitto armato. La Giordania potrebbe ospitare quattro eserciti arabi: oltre a quello giordano, il siriano, l'iracheno, il saudita. Israele potrebbe vincere una nuova guerra, è quasi certo, ma psicologicamente e moralmente sarebbe una catastrofe nazionale. Trenta missili siriani su Haifa, dice Avnery, creerebbero il panico. E poi, sul piano soggettivo, resta l'insicurezza israeliana che affonda le radici nella storia ebraica, vicina e lontana. La restituzione del Sinai avrebbe accresciuto questa insicurezza. Forse anche per attenuare il peso di quella rinuncia, Begin ha voluto, nel dicembre scorso, approfittando del dramma polacco, l'annessione del Golan. Probabilmente sempre per questo motivo, quattro giorni fa l'avia- orione israeliana ha bombardato, per la prima volta dopo la tregua del 22 luglio 1981, le installazioni palestinesi nel Libano meridionale, spingendosi fino alla periferia di Beirut. Anche ieri gli aerei israeliani hanno sorvolato quella regione. E ci si attende un'operazione ancora più consistente, visto che alla frontiera col Libano vi sarebbero alcune divisioni israeliane. Sono azioni tendenti e dimostrare che il governo di Gerusalemme non si è inoltrato sulla strada delle rinunce, dopo quella del Sinai. Al contrario, la sua politica nella Cisgiordania occupata e insubordinata si è irrigidita. La repressione si è appesantita. La resistenza si è accentuata. Tra qualche giorno, mentre è ancor vivo il trauma della sparatoria davanti alle moschee dt Omar e El Aqsa, saranno creati nuovi insediamenti nei territori occupati. La mussa di sefarditi (ebrei provenienti dai Paesi arabi) su cui si appoggia l'askenazi Menahem Begin (di origine polacca) è più passionale, più nazionalista e antiaraba, meno razionale dell'elettorato laborlsta. E i sefarditi considerano un «tradimento» la restituzione del Sinai. Begin li ha in parte calmati con l'annes- ■ sione del Golan, e dovrà riconquistarli del tutto adottando un atteggiamento ancor più fermo nei confronti dei palestinesi, forse fino al punto di muovere le divisioni ammassate lungo il confine libanese. «Mai più un'altra Yamit», ossia mai più un'altra rinuncia, hanno detto molti israe- • liani dopo il dramma di quella colonia del Sinai che i giovani religiosi non volevano abbandonare, e che l'esercito ha distrutto con la dinamite e con i bulldozer, affinché gli egiziani ritrovino oggi il loro deserto intatto, come l'avevano lasciato 15 anni fa. Bernardo Valli