IN ESCLUSIVA UN BRANO DI «SE NON ORA, QUANDO?»: IL PRIMO VERO ROMANZO DI PRIMO LEVI

IN ESCLUSIVA UN BRANO DI «SE NON ORA, QUANDO?»: IL PRIMO VERO ROMANZO DI PRIMO LEVI IN ESCLUSIVA UN BRANO DI «SE NON ORA, QUANDO?»: IL PRIMO VERO ROMANZO DI PRIMO LEVI La lunga marcia degli ebrei Nella primavera del 1944 partigiani sovietici nella zona delle paludi del Pripet vengono raggiunti da una trentina di uomini e donne «stanchi, laceri e baldanzosi» - Sono sfuggiti ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga - Al comando di Gedale, avevano combattuto e assaporato «Faspro cibo dell'uccidere» - Hanno imparato che i tedeschi non sono di ferro e talvolta scappano anche davanti agli ebrei - Ora i partigiani avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro Afine aprile era esplosa la primavera, annunciata da tre giorni di vento caldo e secco. La neve sui rami degli alberi si scioglieva in una pioggia continua, che rallentava il suo ritmo solo di notte; fondeva rapidamente anche la neve al suolo, e subito dal terreno fradicio e fra gli steli proni dell'erba giallastra, macerata dal lungo gelo, spuntavano i primi fiori, timidi e assurdi. I voli dei ricognitori tedeschi si facevano sempre più frequenti, e uno di essi, forse a caso, o forse insospettito da qualche movimento, mitragliò brevemente le baracche, senza provocare vittime né danni. Ulybin ordinò di prepararsi ad abbandonare il campo. Le slitte, ormai inutili, furono bruciate; carri non ce n'erano né c'era il tempo di procurarsene. Per il trasporto delle salmerie non c'erano che i due cavalli e le spalle degli uomini: una carovana di facchini, non un trasferimento di combattenti. Molti degli uomini protestavano, avrebbero preferito restare nel campo e far fronte ai tedeschi, ma Ulybin li mise a tacere: rimanere sul posto era impossibile, e del resto l'evacuazione del campo era stata ordinata via radio. La radio aveva anche segnalato la direzione più opportuna per filtrare attraverso all'accerchiamento delle forze antipartigiane: verso sud-ovest, risalendo il corso della Srviga, ma senza abbandonare la fascia delle paludi. Col disgelo, e con il loro labirinto di istmi, di stretti e di guadi, erano ridiventate un terreno amico. Avrebbero dovuto partire nella notte sul 2 di maggio, ma a sera le sentinelle diedero l'allarme: avevano sentito rumori a nord, voci umane e latrati di cani. Molti uomini diedero mano alle armi, incerti se prepararsi a resistere o anticipare la ritirata, ma Ulybin intervenne: — Tutti ai vostri posti, stupidi, bambocci! Avanti con i preparativi, legare i sacchi, chiudere le casse. Siete nati ie- ^ ri? I cani dei tedeschi non abbaiano, se no che cani da guerra sarebbero? Si rivolse alle sentinelle: — State in guardia, ma non sparate. E' probabile che sia gente amica: hanno mandato avanti i cani a cercare la pista attraverso le mine. Infatti arrivarono prima i cani: erano solo due, e non cani da guerra ma modesti cani da pagliaio, eccitati e disorientati. Abbaiavano nervosamen- te, ora verso le baracche, ora verso gli sconosciuti che tardavano a seguirli, fieri del dovere compiuto, inquieti per le nuove presenze umane; scodinzolavano e ringhiavano alternativamente, o anche simultaneamente; balzavano avanti e indietro, danzavano sul posto con le zampe ante-j riori rigide, e latravano a perdifiato aspirando aria a intervalli con un rantolo convulso. Poi si videro arrivare due vacche, cacciate avanti da giovani sbrindellati: badavano che le bestie non uscissero dalle piste tracciate dai cani. Dai pogrom Infine arrivò il grosso della banda, una trentina di uomini e donne, armati e disarmati, stanchi, laceri e baldanzosi. In mezzo a loro c'era un uomo dal naso aquilino e dal viso abbronzato: portava a tracolla un parabellum e un violino. In coda al gruppo c'era Dov. Mendel disse tra sé: «Benedetto Colui che resuscita i morti». Nacque un trambusto, tutti facevano domande e nessuno rispondeva. Prevalsero alla fine le voci di Ulybin e dell'uomo alto, che era Gedale. Che tutti facessero silenzio ed aspettassero gli ordini; Ulybin e Gedale si ritirarono nello sgabuzzino del comando. Molti degli uomini di Turov ricordavano la lite che era scoppiata fra i due all'inizio dell'inverno; che cosa sarebbe successo ora, in questo nuovo incontro? Si sarebbero riconciliati, davanti alla minaccia imminente? Avrebbero trovato un accordo? Mentre si attendeva l'esito del colloquio, i nuovi venuti chiesero di essere accolti nelle baracche ormai sgombre; alcuni sedettero a terra, altri si sdraiarono e si addormentarono subito, altri ancora chiesero tabacco, o acqua calda per lavarsi i piedi. Chiedevano con l'umiltà di chi ha bisogno, ma con la dignità di chi sa di avere diritto: non erano mendicanti né gente girovaga, erano la banda ebraica radunata da Gedale, composta dai superstiti delle comunità di Pólessia, Volinia e Bielorussia; un'aristocrazia miseranda, i più forti, i più astuti, i più fortunati. Ma alcuni venivano da più lontano, per strade piene di sangue; erano sfuggiti ai pogrom dei saccheggiatori lituani che uccidevano un ebreo per avere un lenzuolo, ai lanciafiamme degli Einsatzkommandos, alle fosse comuni di Kovno e di Riga. Cerano fra loro i pochi sfoggiti al massacro di Ruzany; avevano vissuto per mesi in tane scavate nel bosco, come i lupi, e come i. lupi cacciavano silenziosi in branco. C'erano gli ebrei contadini di Blizna, dalle mani indurite dalla vanga e dalla scure. Cerano gli operai delle segherie e delle tessiture di Slonim, che prima ancora di incontrare la barbarie hitleriana avevano scioperato contro i padroni polacchi e avevano conosciuto la repressione e la prigione. Ognuno di loro, uomo o donna, aveva sulle spalle una storia diversa, ma rovente e pesante come il piombo fuso; ognuno avrebbe dovuto piangere cento morti se la guerra e tre inverni terribili gliene avessero lasciato il tempo e il respiro. Erano stanchi, poveri e sporchi, ma non sconfitti; figli di mercanti, sarti, rabbini e cantori, si erano armati con le armi tolte ai tedeschi, si erano conquistato il diritto a indossare quelle uniformi lacere e senza gradi, e avevano assaporato più volte il cibo aspro dell'uccidere. vdnmrc I russi di Turov li guardavano inquieti, come avviene davanti all'inatteso. Non riconoscevano in quei visi smunti ma determinati il zid della loro tradizione, lo straniero in casa, che parla russo per abbindolarti ma pensa nella sua lingua strana, che non conosce Cristo e segue invece i suoi precetti incomprensibili e ridicoli, forte solo della sua furberia, ricco e imbelle. Il mondo si era capovolto: questi ebrei erano alleati e armati, come .gli inglesi, come gli americani, e come tre anni prima era stato alleato anche Hitler. Le idee che ti insegnano sono semplici e il mondo è complicato. Alleati, dunque: compagni d'armi. Avrebbero dovuto accettarli, stringergli le mani, bere vodka con loro. Qualcuno tentava un sorriso impacciato, un timido approccio con le donne scarmigliate, infagottate nei panni militari fuori misura, dai visi grigi di fatica e di polvere. Sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo. II muro dell'incomprensione ha due facce, come tutti i muri, e dall'incomprensione nascono l'imbarazzo, il disagio e l'ostilità; ma gli ebrei di Cedale non si sentivano, in quel momento, né imbarazzati né ostili. Erano allegri, invece: nell'avventura ogni giorno diversa della Partisanka, nella steppa gelata, nella neve e nel fango avevano trovato una libertà nuova, sconosciuta ai loro padri e ai loro nonni, un contatto con uomini amici e nemici, con la natura e con l'azione, che li ubriacava come il vino di Purim, quando è usanza abbandonare la sobrietà consueta e bere fino a non saper più distinguere la benedizióne dalla maledizione. La vendetta Erano allegri e feroci, come animali a cui si schiude la gabbia, come schiavi insorti a vendetta. E l'avevano gustata, la vendetta, pur pagandola cara: a diverse riprese, in sabotaggi, attentati e scontri di retrovia; ma anche di recente, pochi giorni prima e non lontano. Era stata la loro grande ora. Avevano attaccato, da soli,, la guarnigione di Ljuban, ottanta chilometri a nord, do¬ ve stavano confluendo truppe tedesche e ucraine destinate al rastrellamento; nel villaggio era anche un piccolo ghetto di artigiani. I tedeschi erano stati cacciati da Ljuban: non erano di ferro, erano mortali, quando si vedevano sopraffatti scappavano in disordine, anche davanti agli ebrei. Alcuni di loro avevano abbandonato le armi e si erano gettati nel fiume ingrossato dal disgelo, era stata una visione che rallegrava, un'immagine da portarsi nella tomba: gli ebrei la raccontavano ai russi con facce allucinate. Sì, gli uomini biondi e verdi della Wehrmacht erano foggiti davanti a loro, entravano nell'acqua e cercavano di arrampicarsi sulle lastre di ghiaccio trascinate dalla torrente, c loro avevano sparato ancora, e avevano visto i corpi 'dei tedeschi affondare o navigare verso la foce sui loro catafalchi di ghiaccio. Il trionfo era durato poco, si capisce: i trionfi durano sempre poco, e, come sta scritto, la gioia dell'ebreo finisce nello spavento. Loro si erano ritirati nel bosco portandosi dietro quelli fra gli ebrei del ghetto di Ljuban che sembravano in grado di combattere, ma i tedeschi erano tornati e avevano ucciso tutti quelli che nel ghetto erano rimasti. La loro guerra era così, una guerra in cui non ci si volta a guardare indietro e non si fanno i conti, una guerra di mille tedeschi contro un ebreo e di mille morti ebrei contro un morto tedesco. Erano allegri perché erano senza domani e non si curavano del domani, e perché avevano visto i superuomini sguazzare nell'acqua gelata come ìe rane: un regalo che nessuno gli avrebbe più tolto. Portavano anche altre notizie più utili. Il rastrellamento era già cominciato, e loro erano stati sloggiati dal loro campo, che del resto era un povero campo di tane, provvisorio, non certo paiagonabile a quello di Turov. Ma non era vero che fosse un grande rastrellamento: non derano né carri né artiglieria pesante, e un prigioniero tedesco che loro avevano interrogato aveva confermato che il punto più debole dell'accerchiamento doveva Eroprio essere dove pensava Uybin: a sud-ovest, Stviga. Dov stava bene, non zoppicava quasi più, ma era più curvo di prima. I suoi capelli, di nuovo accuratamente pettinati, erano più radi e più bian:hi. Sissl gli chiese se voleva mangiare qualcosa, e lui rispose ridendo: — A un malato si domanda, a un sano si dà, — ma aveva più fretta di raccon¬ lungo la tare che di mangiare. Intorno a lui si era formato un cerchio di ascoltatori, ebrei e russi: non erano molti quelli che dalla Grande Terra tornavano in territorio partigiano. — Quanto tempo è che Eariano, quei due? Un'ora? E' uono segno: più parlano e più vanno d'accordo; e vuole anche dire che i tedeschi sono ancora lontani, o che hanno cambiato strada. Ma sicuro, che mi hanno curato: che cosa avevate pensato? All'ospedale di Kiev. Non aveva più il tetto, o anzi non l'aveva ancora, perché lo stanno ricostruendo, e sapete chi? I prigionieri tedeschi, quelli che si sono arresi a Stalingrado. Un ucraino Non c'era il tetto, non c'era da mangiare e non c'era l'anestesia, ma c'erano le dottoresse, e mi hanno operato subito: mi hanno tolto qualcosa dal finocchio, un osso, e me hanno anche fatto vedere. Nelle cantine, mi hanno opei rato, alla luce dell'acetilene, e poi mi hanno messo in corsia, una corsia sterminata, più di cento lettini per parte, con dentro vivi, moribondi e morti. Non è bello stare in ospedale, ma proprio in quella corsia è arrivata la mia fortuna: se c'è la fortuna, anche un bue partorisce. E' venuta una visita, uno importante, del Polit- burò, un ucraino: piccolo, grasso, calvo, con l'aria del contadino e il petto coperto di medaglie. In mezzo a quella confusione di portantini che andavano e venivano, si è fermato proprio davanti a me. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo e dove ero stato ferito; aveva dietro quelli della radio, e ha improvvisato un discorso dove diceva che rutti quanti, russi e georgiani e jakuti ed ebrei, siamo figli della gran madre Russia, e che tutte le questioni devono finire... Si udì la voce di Piotr: — Se quello era un ucraino, ed era un pezzo grosso, gli potevi dire che incominciasse a fare pulizia a casa sua! Sono gentaglia,'gli ucraini: quando sono venuti i tedeschi, gli hanno aperto le porte e gli hanno offerto il pane e il sale. I loro banderisti sono peggio dei tedeschi —. Altre voci fecero tacere Piotr ed esortarono Dov a continuare. — ... e mi ha chiesto, una volta che io fossi guarito, dove volevo essere mandato. Io fli ho risposto che la mia casa troppo lontana, che avevo amici partigiani, e che avrei voluto ritrovarli. Bene, appena mi hanno dichiarato guarito lui si è dato da fare. Forse voleva dare un esempio, ha ripescato Gedale e la sua banda e mi ha fatto paracadutare vicino al suo campo, insieme a una cassa con dentro quattro parabellum come suo regalo personale. Scendere col paracadute fa abbastanza paura, ma sono finito nel fango e non mi sono fatto niente. Dov avrebbe avuto ancora una quantità di cose da raccontare su quanto aveva visto e udito durante la sua convalescenza nella Grande Terra, ma si aprì la porta del comando, ne uscirono Gedale e Ulybin, e tutti tacquero. Primo Levi Pubblichiamo un brano del primo vero romanzo di Primo Levi, «Se non ora, quando?», un romanzo storico che sta per uscire dall'editore Einaudi. E* la primavera del 1944: partigiani sovietici «ortodossi», comandati da Ulybin e accampati a Turov, devono evacuare il campo per sfuggire a un rastrellaménto. Sono raggiunti dalla banda ebraica irregolare di Gedale, che di tappa in tappa arriverà in Italia. Fritz Gerlach: «La gare» e, sotto, Piet Mondrian: «Albero blu» (L'Aia, Gemeentemuseum)

Luoghi citati: Bielorussia, Gemeentemuseum, Italia, L'aia, Riga, Russia, Stalingrado