Luciano Berio trovatore alla Scala di Massimo Mila

Luciano Berio trovatore alla Scala Luciano Berio trovatore alla Scala (Segue dalla l'pagina) non c'è neanche l'ombra di quei comodi e pericolosamente «suggestivi» strumenti a martelli — xilofoni, vibraphon, xilomarimba — che sono diventati prezzemolo e pepe della moderna cucina orchestrale. All'alta tenuta musicale della seconda parte non corrisponde una perspicuità teatrale così scorrevole come nella prima. Non c'è nuovo libretto, d'accordo: le parole vengono desunte frammentariamente dalla prima parte, seguendone 'ordine con qualche lieve spostamento, e la vicenda viene ripercorsa sotto un altro punto di vista, meno realisticamente narrativo e più riflessivo. Ma non si capisce perché gli autori non abbiano voluto fornire, se non le parole dei personaggi, almeno il seguito delle didascalie esplicative di quanto avviene in scena. Certo, questo si dovrebbe capire a vista, e la regia di Maurizio Scaparro fa moltissi mo per consentirlo, ma il senso degli eventi scenici resta nella seconda parte alquanto sibilìi no. Le due scene ideate da Carlo Tommasi — una gran piazza con in fondo un solenne edificio «che pare carico di sto ria», e una facciata di casa le cui finestre compatte s'illumi nano a turno o tutte insieme ri velando i personaggi interni — corrispondono alle intenzioni degli autori, anche se in qualche caso la scena unica, per ov vie considerazioni di praticità, pesa negativamente. Per esempio nella prima parte la scena del carcere, per cui Calvino ha scrìtto un testo bellissimo, da far pensare che anche lui ci sia stato, si svolge nell'ampio spazio della piazza dove avvengono le «feste»; la presenza di sei guardie armate che la delimitano non può certo supplire alla realtà di quei «veri muri» e di quella «inferriata» che le, parole evocano, e Luca, più che un detenuto, sembra un evaso. Veniamo cosi all'esecuzione musicale che, diretta da Berio, deve avere quasi pienamente corrisposto ai suoi desideri. Diciamo «quasi», per la malaugurata indisposizione vocale che ha sminuito l'efficienza del mezzosoprano Alexandra Milcheva nella parte di Ada,7 colei che, sottraendo per vendetta il figlioletto del tirannico governatore, istituisce una dichiarata analogia con la trama romanzesca del Trovatore. Bene a posto, invece, il soprano Mariana Nicolesco in quella parte di Leonora che, da un punto di vista solo drammaturgico, sembra messa 11 soltanto per continuare l'analogia „,iddetta attraverso il nome del personaggio, istituendo la classica rivalità amorosa tra baritono e tenore, e invece musicalmente si rivela come uno dei personaggi meglio forniti della partitura: dopo la sua prima «aria», veramente molto consistente, si è perfino beccata un timido tentativo di applauso a scena aperta, caso più unico che raro negli annali dell'opera moderna. Applausi a scena aperta se n'è avuti, giustamente, Milva, sulla cui partecipazione e presenza alla grande Scala s'appuntava la curiosità del pubblico e della stampa, quasi al punto di montarci un altro caso di divismo alla Caballé. Ma non c'è nulla di strano né nella sua presenza né nella sua riuscita. E' chiaro che Berio non l'ha voluta per farla cantare in stile di melodramma come una Cossotto o una Obrastzova. Le ha assegnato i «songs» di una delle cantastorie, tenuti dentro la tessitura di cui dispongono le cantatrici di questo tipo. Quanto a volume di voce, Milva ne ha da vendere, o da prestare, anche a molte colleghe della scena lirica, e quanto a presenza scenica anche. Ma s'è pur dovuto ammirare l'intelligenza (unitamente a quella diabolica di Berio) con cui ha superato lo scoglio della seconda Ballata, su parole che, a leggerle la prima volta nel libretto, uno pensa: — Ma questi due son diventati matti, a credere che si possano cantare parole simili? — Invece il terzetto Berio-Calvino-Milva vince la strepitosa scommessa d'instaurare la più spassosa parodia brechtiana su parole come: «Quando ricordiamo qualche cosa ch'è avvenuto ad alterare uno stato d'equilibrio forse solo ipotetico», e avanti concettualizzando di questo passo. Daisy Lumini è l'altra Cantastorie, anch'essa efficace, e Oslavio di Credico, Roeloff Ostwoud, Alberto Noli, Giancarlo Luccardi e Gabriella Ravazzi gli altri valorosi cantanti «dotti». Gli Swingle Singers prestano man forte nella seconda parte al coro della Rai di Torino, istruito da Fulvio Angius; bravissimo, questo coro, ma cosi immobile nelle quattro «feste»! Non si pretende che i coristi cantino facendo anche loro i salti mortali come i numerosi danzatori e mimi che animano le scene collettive, con figurazioni acrobatiche e con duelli alla West Side Story e alla Béjart, ma potrebbero dimenarsi un poco anche loro e partecipare all'agitazione collettiva. L'opera ha avuto un lieto successo, con numerose chiamate agli interpreti, a Berio e a tutti i pricipali collaboratori. Soltanto Calvino, autore d'un libretto su misura che calza magicamente su una musica probabilmente preconcepita, si è sottratto alle luci della ribalta e se ne stava arroccato in un palco. Massimo Mila

Luoghi citati: Torino