Quando il mago domandò «Chi vuol fare l'astronomo?» di Giorgio Abetti

I cento anni di Giorgio Abetti I cento anni di Giorgio Abetti Quando il mago domandò «Chi vuol fare l'astronomo?» LA longevità tra gli astronomi è un fatto abbastanza frequente e Giorgio Abetti, nato a Padova il 5 ottobre 1882, ne è un esempio. Centenario quest'anno, il grande astronomo è ancora vegeto e vive a Firenze sulla collina di Arcetri, vicino all'osservatorio che tanto gli deve. Molti ricorderanno i suoi articoli che per anni sono apparsi su questo giornale. Giorgio Abetti è stato il mio maestro, come titolare della cattedra di Astronomia nell'Università di Firenze e come direttore dell'osservatorio astrofisico. Più di mezzo secolo fa, durante una visita scolastica all'osservatorio, accadde che Abetti domandò a un certo punto alla scolaresca: «C'è qualcuno che vuol fare l'astronomo?». Io non ebbi esitazioni, perché quella era la mia vocazione fin da bambino; ma la risposta fu particolarmente decisa, perché ero stato subito preso dal fascino di quell'uomo, misurato, signorile, affabile; con quel modo di parlare senza enfasi che conferiva modestia e ritegno a tutto quel che diceva, rinforzandone, sotto sotto, il prestigio. Abetti era il caposcuola di quella che era allora la piccola pattuglia di astrofisici italiani. Ad Arcetri ce n'erano due. di qualche anno più anziani di me."Attilio Colacevich e Guglielmo Righini. Cominciai a salire all'osservatorio di Arcetri molto prima della laurea, con un modesto compenso di 150 lire al mese per qualche lavoretto, per esempio il controllo degli orologi a pendolo, sulla base dei segnali di tempo trasmessi da una lontana stazione radio. Si diceva in gergo: «Fare gli orologi», cosi come, quando si trattava di effettuare l'osservazione quotidiana del sole (macchie, protuberanze al bordo e. qualche volta, altezza della cromosfera) all'equatoriale di Amici, si diceva brevemente: «Fare il sole». Il nome ufficiale di quel telescopio era motivato dai ricordi ottocenteschi del primato di Firenze nell'ottica. L'obiettivo di 30 centi- Sezione della torre solare di Arcetri, progettata da Abetti metri eseguito da G.B. Amici era ormai sostituito da un obiettivo Zeiss di 37 centimetri, avuto in conto riparazioni di guerra. Le osservazioni si facevano visualmente e il custode Giovanni Pala, un sardo senza una gamba, mutilato di guerra, saliva fino in cupola, puntava il telescopio e — ne sono certo — se non fosse stato per riguardo a noi astronomi, sarebbe stato capacissimo di fare lui stesso le osservazioni. Del resto, i calcoletti numerici occorrenti per determinare il numero di Wolf, caratteristico dell'attività solare, l'area delle protuberanze, l'altezza della cromosfera, li faceva lui con l'aiuto di una indistruttibile Brunswiga, e li faceva benissimo. Tuttavia, lo strumento più prestigioso dell'osservatorio, accanto a un magnifico cipresso, era la torre solare. Era questo uno strumento particolarissimo: c'era un cannocchiale molto lungo (18 metri di distanza focale) sempre in posizione verticale, nutrito della luce solare da un sistema di due specchi, alloggiato in una cupole! ta argentea, la quale sormontava la struttura in cemento armato. Al livello del terreno c'era la stanza di osservazione e nel sottosuolo un grosso spettrografo. «Fare la torre» era un altro compito istituzionale dell'osservatorio, diviso a turno fra gli astronomi in servizio: si trattava di eseguire due spettroeliogrammi, cioè due fotografie monocromatiche del sole, rispettivamente nella riga rossa dell'idrogeno (ed era facilissimo puntarla direttamente dallo spettro del sole) e nella riga violetta del calcio ionizzato. Malauguratamente, questa riga era in realtà ai confini dell'ultravioletto, per cui la si puntava indirettamente, proiettando attraverso la fenditura dello spettrografo la luce di un arco voltaico, dopo averne spruzzato i carboni con una soluzione di calcio. Vedere la riga e addirittura puntarla, era per me una vera e propria via crucis, specialmente quando lo strato di argento degli specchi era deteriorato. Sebbene specializzato nel sole, l'osservatorio di Arcetri aveva anche un'attività notturna, ed era quella cui mi dedicai per la mia tesi di laurea, aiutato prima da Righini e poi da Colacevich, reduce da una borsa di studio all'estero. Questa apertura verso altri prestigiosi centri di ricerca era un privilegio per gli astronomi di Arcetri, i quali avevano la fortuna di lavorare con un maestro stimatissimo e benvoluto da quelli stranieri. Quando toccò a noi di andare all'estero, Colacevich a Lick, Righini a Utrecht, io a Potsdam, trovammo accoglienze cordiali e manifestazioni di stima, non tanto per le nostre qualità, più potenziali che effettive, quanto perché venivamo da Arcetri, una parola che tutti gli astronomi del mondo sapevano pronunziare benissimo, insieme al nome di Abetti. Mario G. Fracastoro

Luoghi citati: Firenze, Padova, Potsdam, Utrecht