«La voce di Reagan»
«La voce di Reagan» «La voce di Reagan» E' venuto da New Rochelle per questa conversazione, protetto dalla sua barba, vestito da campagna. Tornerà in campagna stasera. Suggerisce immagini di spazio, cani, bambini, lunghe passeggiate in silenzio, ma non so come vive. I suoi libri sono fiumi di immagini, folle di personaggi, grandi storie che contengono altre storie, e tutto precipita in una cascata di eventi regolati soprattutto da una musica che finisci per sentire in testa, leggendo. Questa energia, che deve essere immensa, quando lavora, viene controllata in modo parsimonioso nella conversazione. Non evita alcun argomento, neppure il più scomodo o il più spinoso — come giudicare Ronald Reagan e la sua polìtica in un momento in cui tutti sembrano conservatori in America. Ma gli basta questo sussurrare pacato, in cui ogni cosa viene spiegata come farebbe un buon insegnante. C'è la dimostrazione, c'è la persuasione, mai l'enfasi. C'è anche una sicurezza tranquilla, che non chiede conferme, e non cerca solidarismi. Non c'è mai un «se» o un «forse». E non perché Doctorow sia perentorio. Sceglie, cauto, fra molte cose a cui ha già pensato. «Stanno decostruendo, destabilizzando, preparando alti prezzi sociali per un Paese che sarà stremato e diviso. Vedo un po' di furbizia, un certo charme e una assoluta mancanza di idee. Sento, dalla bocca di Reagan, la voce di Calvin Coolidge». Siamo nel West Bronx, quartiere popolare di New York, nei tardi Anni Trenta. La recessione ha spazzato tutto, anche il negozio del padre. Ma il sogno americano continua a correre come un vento per le strade gremite di una città che cerca speranza. Lo agitano adolescenti e bambini che adorano Roosevelt, sentono parlare di socialismo, leggono Marx a dodici anni, discutono sulla guerra di Spagna. E intanto scrivono, suonano, studiano, lavorano, guadagnano la prima paga, si scambiano la scena di una commedia che sognano di presentare a Broadway, il testo di una poesia che vorrebbero pubblicare sulla Partisan Review. La colonna sonora di questo documentario frenetico è quella dolorosa del jazz, è la voce di Roosevelt che parla alla radio, sono le canzoni di Woody Guthrie dedicate alla gente vagabonda che cerca lavoro. 'Mi sembrava uno spazio grandissimo. Le strade del mio quartiere potevano portare dovunque. Io allora suonavo il piano. Suonavo male, da principiante. Ma mi sembrava di dare un ritmo, un tempo musicale a tutta quella gente che andava e veniva per le mie strade, con l'ansia di avere un lavoro o con l'euforia nuova, straordinaria, di un lavoro appena trovato». E com'erano gli Anni Cinquanta? -Sono gli anni in cui è stata inventata la vita della periferia, triste, sconnessa. Sono gli anni di Doris Day, della finta pulizia, della caccia alle streghe. Sono gli anni dei Rosenberg. Vorrei ricordare che i Rosenberg sono stati condannati per spionaggio. Ma erano stati processati per tradimento, un'accusa di guerra. Non sapevamo come finire la guerra. E' un tempo stonato. Questi sono gli Anni Cinquanta». •Mio padre era un tipografo, era un socialista ed era un giocatore di scacchi. Mi portava al cinema, a teatro, ai comizi. Mi ha portato con sé nell'età della ragione. Negli Anni Cinquanta avrebbero voluto forzarmi a uscirne». E' stato all'estero? 'Poco, meno di quanto avrei voluto. L'America mi è sempre parsa talmente grande. Il mio estero comincia in Germania, quando mi hanno mandato a fare il servizio militare. Sapevo il francese, sapevo un po' di tedesco, mi piaceva vedere dove era passata la storia. Una notte di Capodanno, era il 1955, mi hanno invitato a una festa. Dei tedeschi ubriachi cantavano canzoni delle Dal suo più famoso romanzo è stato ricavato il film che appare ora in Italia. «Una specie di mania musicale ha cominciato a prendermi Nelle vicende che racconta, i fantasmi della storia si mescolano 55 dedicate agli ebrei. Ridevano e raccontavano barzellette sugli ebrei nei campi di sterminio, cose che a loro dovevano sembrare gustose. E' come se fossero venuti dei fantasmi a dire, a me, ebreo, che certe cose erano accadute davvero». La storia secondo Doctorow ha ancora due capitoli. Uno è privato. »Mi vedo seduto davanti a un tavolo che ripeto a me stesso: devo scrivere, sono scrittore. E la pagina è vuota». L'altro è pubblico. E' l'immagine che gli è rimasta degli Anni Sessanta. »Un periodo gentile e nobile. Kennedy era la legittimazione della cultura. King era la decenza, la giustizia. Finiva con lóro un tempo anti estetico, anti sessuale, anti amore».
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