Riscoprire Sonnino leader ed enigma

Riscoprire Sonnino leader ed enigma NEL «CARTEGGIO 1891-1913» Riscoprire Sonnino leader ed enigma «Quercianella-Sonnino». Attraverso la piccola stazione ferroviaria, che dista poco meno di quindici chilometri da Livorno, sulla via della Maremma, imparai a conoscere il nome di Sidney Sonnino — un nome così esotico, così difficile, così esterno alla fantasia e alla immaginazione degli italiani — fin dagli Anni Trentacinque, nei viaggi in treno verso Castiglione-dio. Non avrei mai immaginato allora, in quegli anni che appartengono per ognuno all'età favolosa, che un giorno sarei diventato proprietario della collezione completa della Nuova Antologia che era appartenuta a Sidney Sonnino, animatore e collaboratore impareggiabile della rivista, con una legatura in pergamena, adornata da tasselli in bleu scuri, rimasta intatta fino all'ottobre 1914, fino al mese cioè in cui era scomparso Antonino di San Giuliano e il rilegatore paziente, appunto Sidney Sonnino, gli era subentrato nella direzione della politica estera nazionale. Di quella collezione, all'inizio degli Anni Cinquanta, ero diventato proprietario per una somma che oggi non basterebbe a comprare un volume doppio della «Pleiade». Ho reincontrato Sonnino parecchie volte, da allora, nei miei non pochi studi giolittiani. Ma sempre dall'altra parte, dalla parte dell'avversario e competitore sfortunato del grande statista piemontese. Giolitti l'aveva definito in modo quasi perfetto, in quelle Memorie icastiche e incisive, monumento di sobrietà letteraria e di massima eleganza antiretorica proprio all'inizio degli anni in cui la retorica doveva esplodere violenta e contaminatrice. «Se egli conosceva i problemi non ha mai conosciuto in modo sufficiente gli uomini, la cui collaborazione, volontaria o renitente, diretta o indiretta, alla soluzione dei problemi è indispensabile nei regimi democratici e rappresentativi»: ecco in poche righe il ritratto di Sonnino, il ritratto che Giolitti dedicherà all'avversario insigne per elevatezza di vita, per rigore di costumi, per coerenza ideale, ma privo di quelle qualità politiche che sole permettono di dominare un'assemblea e di governare uno Stato. Anche in mezzo agli amici, concluderà lo statista piemontese, rimase sempre «un isolato e un appartato», emergendo solo nei compiti di carattere tecnico, come il dicastero del Tesoro dove le stesse doti che gli sbarravano la via al successo politico — come la rigidezza e l'inflessibilità — lo aiutavano a «proteggere» il bilancio dello Stato. Un ritratto ricco di sfumature del «signore della logica astratta» (sono ancora parole di Giolitti) emerge nitido dal Carteggio 1891-1913 pubblicato a cura di Benjamin F. Brown e di Pietro Pastorelli, editore Laterza con la collaborazione della University Press del Kansas: volume conclusivo, con le lettere scambiate fra 1891 e 1913, dell'intera «Opera omnia» di uno dei personaggi più enigmatici della vita politica italiana nel cinquantennio che separa Porta Pia daila marcia su Roma. Epistolario, più che carteggio: per il sacrificio, causa i costi editoriali crescenti, di numerose lettere di corrispondenti anche autorevoli. Ma è una selezione che consente egualmente di penetrare l'uomo che fu due volte presidente del Consiglio — e due brevi volte — nella cerchia degli amici, nell'azione politica, nella vita privata (lui scapolo intransigente e chiuso in se stesso). Non siamo d'accordo col curatore americano Brown quando scrive nelle pagine introduttive al Carteggio che «prima del regicidio di Monza il lettore troverà un personaggio sempre più conservatore e in fondo anche reazionario...» solo più tardi un «liberale». E' una distinzione forzata in un leader politico conservatore «illuminato» sempre, «liberale», almeno in senso gioiittiano. mai. Sfogliamo il carteggio. Nel settembre del 1892 Sonnino rimproverava a Giustino Fortunato di essere diventato «feroce sostenitore» della divisione dei partiti. «Il predicare, in Italia, e il fomentare le divisioni degli animi, e i rancori e le antipatie tra cittadini, in qualsiasi ramo, è un delitto». Conservatori e progressisti, destra e sinistra? E' una distinzione che — se applicata in modo rigido — Sonnino già al- lora (inizio Anni Novanta) respinge: «Non credo necessaria la divisione in due partiti, a confini nettamente definiti; la crederei oggi anzi cosa dannosa, e pericolosissima in Italia». Quale la sua posizione? La spiega con chiarezza al deputato Campi, in una lettera dell'ottobre di quell'anno, 1892. «Noi non vogliamo "soffermarci" e nemmeno correre e procedere a salti; vogliamo "camminare" e camminare "sempre", senza fermate e senza il rischio di inciampare e cadere. E per non inciampare, non ammettiamo che si dia la mano né a chi vuol star fermo, né a chi vuol correre. Tutti poi vogliono progredire, il dissidio nasce sul modo». Sul modo non ci fu mai intesa con Giolitti. Di qui l'incontro, quasi predestinato, con l'altro grande oppositore di Giolitti nel regno della carta stampata Alberto Bergamini, vero protagonista con Sonnino di questo carteggio dal 1900 in poi. Bergamini — // giornale d'Italia. Bergamini prestato dalla redazione del Corriere e incaricato di fondare le fortune del nuovo quotidiano italiano, da quella testata così risorgimentale. L'altro braccio del Corriere albertiniano verso Roma. Una delle due tenaglie antigiolittiane: il grande quotidiano del mattino di via Solferino, attirato dalle posizioni di liberalismo conventuale e quintario, e il quotidiano della sera di Palazzo Sciarra, l'organo più aperto alle voci, ai pettegolezzi, alle manovre del Parlamento, ma sempre nel «no» allo statista di Dronero e alle formule del suo liberalismo di sinistra problematico e quasi rabdomantico. «Onorevole signor barone»: così il giornalista si rivolgerà al leader della destra, senza mai andare oltre a un più conciso «onorevole Sonnino», neppure nel 1913. «Caro amico», risponderà invece il vecchio parlamentare toscano nelle tante lettere inviate, dense di sfoghi, di direttive e di consigli, di proposte e di richieste di chiarimenti. Mai perentorie, mai lesive della libertà e della dignità del direttore. Bergamini e Sonnino erano davvero fatti per intendersi; il loro sodalizio non poteva non rivelarsi duraturo. Per amicizia, per devozione, per convincimenti, il grande giornalista era legato a quella élite aristocratica e solitaria del liberalismo di destra, anzi dei superstiti della vecchia Destra (con tanto di D maiuscola), che rappresentava l'ultima «isola» di intransigenza risorgimentale, con un fondo di durezza (proprio dei grandi proprietari di terra), in una società in trasformazione e in sviluppo, anche industriale, nella società che aveva trovato in Giolitti, appunto, il suo «demiurgo» incomparabile. «Isolato e appartato», Sonnino non meno di Bergamini. L'uno e l'altro chiusi nella corazza di una loro segreta malinconia, nutrita ad una visione austera della vita, ad un gentilomismo assoluto e perfino disdegnoso, ad un culto della coerenza portato fino ai limiti della sfida, fino quasi alle soglie della impopolarità. Un «galantomismo», una correttezza politica che contrassegnava in primis i loro stessi personali rapporti. Ogni volta che ricopriva incarichi di governo, Sonnino attuava un totale distacco dal direttore e dal suo giornale. Non confidava più, al fedele amico, progetti e speranze, non gli forniva notizie, lo invitava a non indirizzargli una sola lettera. Non solo. Se per caso Sonnino incontrava Bergamini per strada gli negava, in quei giorni, perfino il saluto. Il sospetto degli altri che potesse tentare di procurarsi favori lo feriva: con lo stesso orgoglio e intransigenza morale di un altro' grande barone toscano che lo aveva preceduto, tanti anni prima, alla guida del governo: Bettino Ricasoli. Con quasi eguale intrattabilità. Giovanni Spadolini Sidney Sonnino

Luoghi citati: Dronero, Italia, Kansas, Livorno, Monza, Roma