Cattivi Pensieri di Luigi Firpo

Lettera scritta in sogno Cattivi Pensieri Lettera scritta in sogno L'altra notte ho fatto un sogno strano. Mi pareva di essere un dirìgente comunista e di aver appena ricevuto a Roma la lettera preoccupata e amara di un vecchio compagno torinese più vicino a Cossutta che a Berlinguer. Prendevo allora la penna e gli rispondevo pressappoco cosi: Carissimo, capisco il tuo disorientamento. Non ti dico questo soltanto in nome della nostra vecchia amicizia e della lunga militanza comune, ma perché anch'io mi sento un po' svuotato e orfano, anche se non ho dubbi sulla bontà della scelta che qui è stata adottata. Tutt'e due abbiamo passato da un pezzo i sessanta e non abbiamo più molto tempo da perdere dietro le illusioni: stavolta è proprio venuto il momento di tirare le somme e di far quadrare i bilanci. Eravamo poco più che ragazzi, negli Anni 30, quando prendemmo l'abitudine di trovarci all'alba sullo stesso tram sferragliante (il n. 18 che andava verso il Lingotto) col cappottino rivoltato e la borsa di tela cerata con la pietanziera d'alluminio e la pagnotta del giorno prima. In quegli anni di grigiore e di oppressione il nome di Mosca si accendeva in noi come un faro. Troppo giovani per essere stati a Livorno, eravamo tutti convinti che la scissione fosse stata sacrosanta e benefica, una sorta di catarsi dei duri e dei puri, fuori dalle chiacchiere sterili dei riformisti, che non avevano saputo impedire la guerra e poi non avevano saputo fare la rivoluzione. Ci sentivamo come un manipolo scelto, un'avanguardia proletaria indomabile. Ci saremmo indignati se qualcuno ci avese detto che, in fondo, eravamo soltanto il ricalco italiano dei Soviet, un prodotto della storia altrui, più che un frutto spontaneo della nostra. Dalla Russia, ci vennero i miti esaltanti e gli appoggi discreti: essa fu per noi il santuario nel duplice senso di custodia di sacre memorie e di rifugio in cui ritemprare le forze per la lotta. Lenin nel treno piombato, i marinai di Kronstadt, gli ammutinati della Potiemkin, l'armata a cavallo di Babel, le cuspidi policrome del Cremlino e i colonnati candidi della Prospettiva Newskij furono protagonisti e scenario della nostra epopea. Qui la miseria dei salari congelati e la retorica bolsa dei federali, ma là, in un Oriente austero e operoso, si veniva edificando con entusiasmo oceanico la nuova realtà del socialismo. Poi venne la guerra, e mentre il nostro Paese crollava come una capanna infracidila, l'Unione Sovietica, malgrado inaudite perdite, resisteva, contrattaccava, rovesciava dagli Urali verso i grandi fiumi sempre nuove armate, alla fine travolgeva le ultime resistenze naziste e innalzava la bandiera rossa sulla Porta di Brandeburgo. Alla testa di quelle armate, dal capo indiscusso di un socialismo militarmente vittorioso, campeggiava nelle fantasie la figura rocciosa eppure paterna di Stalin, l'uomo che sin dagli anni giovanili aveva tratto il soprannome dall'acciaio, ma sapeva sorridere bonariamente sotto i suoi baffi spioventi di caucasico. A dire il vero, qualche mormorio s'era levato fin d'allora. Ci fu chi disse che senza le «purghe» feroci la Russia sarebbe giunta meno impreparata al conflitto; ci fu chi rimpianse il genio militare di Tukacewskij, eliminato per ingiusti sospetti; e ci fu anche, tra le file dell'antifascismo internazionale, chi pianse di vergogna quando assistette alla firma del patto di non aggressione fra Ribbentrop e Molotov, alla spartizione della Polonia, a quello che apparve a molti un patto infame fra dittatori senza scrupoli. Ti risparmio il resto, perché è storia abbastanza recente. Abbiamo addebitato alla propaganda dell'Occidente la denuncia delle deportazioni, dei campi di lavoro, dei manicomi per dissidenti; abbiamo accolto con stupore e mortificazione il rapporto di Kruscev al XX Congresso, che trasformava l'idolo in un carnefice sanguinario. Abbiamo visto i carri armati schiacciare la rivolta di Budapest, la Primavera di Praga, la solidarietà dell'intera Polonia. Credi che avremmo potuto continuare a ignorare e a giustificare ad ogni costo? So cosa dicono tanti compagni: che quelli erano attentati all'edificio del socialismo e che in ogni dissenso c'era lo zampino di qualche servizio segreto o un complotto di agenti provocatori. Se un'ultima verifica era necessaria, a Varsavia l'abbiamo esperita senza residui di dubbio. Non c'erano padroni fra gli uomini del sindacato, né venduti, né traditori: solo operai scontenti, e richieste di una vita meno misera, e sete di libertà. Credimi, mio caro, la somma è troppo lunga e i numeri son tutti dello stesso segno: se avessimo deciso ancora una volta di chiudere gli occhi, ci saremmo ridotti a un feticismo senza futuro. Adesso, che fare? Bisogna spiegare ai compagni esitanti e turbati, che ripudiare il socialismo reale di Mosca non significa rinunciare al socialismo. Si tratta di rompere gli schemi rassicuranti ma anchilosati e di ricominciare a pensare. Marx e Lenin restano grandi, ma il mondo cambia troppo rapidamente perché oggi i loro modelli possano servire a interpretarlo senza residui. Nell'età del Terziario e dell'Informatica, la lotta di classe, concetto adeguato ad una società stratificata e rigida, spiega una parte sempre più ridotta dei conflitti sociali. Un secolo e mezzo fa proletario e lavoratore coincidevano; oggi gli operai non sono più proletari, taluni sedicenti lavoratori sono marxisti, la grande industria è per la maggior parte statizzata, non c'è persona che non abbia copertura assistenziale e molte vecchie formule hanno perduto ogni senso. Vorrei che tu sentissi con me quale compito esaltante possiamo ancora cercare di assolvere, con l'austerità e la passione di un tempo, di fronte alle nuove sfide della storia. di Luigi Firpo