Per le scale del castello c'è un gufo è il re di Gormenghast

La fantasy di Mervyn Peake La fantasy di Mervyn Peake Per le scale del castello c'è un gufo è il re fi Gormenghast Romanzo di Cerami Al luna park i cattivi tornano bambini POETA, pittore, disegnatore, nato nel 1911, Mervyn Peake dedicò vent'anni alla stesura di una ponderosa trilogia di cui questo Tito di Gormenghast costituisce «solo» il primo volume, contenendo poco più che l'antefatto della storia, oltre alla descrizione-evocazione dell'ambiente, che peraltro riveste una importanza totale: anzi, pochi altri libri vengono alla mente in cui ambiente e materia narrativa coincidano al pari di questo. I tre volumi uscirono alla spicciolata, fra il 1946 e il 1959, senza attrarre soverchiamente la curiosità della critica ma conquistandosi una solida reputazione sotterranea presso una certa cerchia di lettori. In epoca più recente sono stati riuniti e rilanciati nei Penguin, certo sulle orme dell'immenso successo riscontrato da altre descrizioni di mondi immaginari, diversi da questo nostro o ispirati a sue età mitiche: successo il cui massimo alfiere è stato la saga 17 signore degli anelli di J. R. R. Tolkien, al quale Peake oggi viene spesso inevitabilmente paragonato. Inutile dire che i due autori hanno ben poco in comune; forse soltanto la lontana parentela con una certa tradizione di narrativa fantastica, le cui origini Matthew Arnold segnalò addirittura nello spirito celtico, e fra le tappe della quale sono II sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e 17 regno segreto di Robert Kirk (anch'esso pubblicato da Adelphi), nonché durante il secolo scorso le opere di numerosi pittori visionari oggi rivalutati, fra cui il celeberrimo Richard Dadd. Tolkien si rifece a questa tradizione, che fra l'altro gli scorreva nelle vene di filologo anglosassone, per proporre in tempo di guerra una articolata fiaba-apologo in cui tranquilli folletti amanti del tè e delle pantofole e dotati di un sereno ottimismo si trovano loro malgrado coinvolti nell'opposizione contro le forze di un male oscuro, violento, crudele; e, alla fine, prevalgono. Non c'è apologo in Peake, invece, e manca lo stesso conflitto fra positivo e negativo, presente- in ogni fiaba che si rispetti. Non c'è addirittura nemmeno, o quasi, in questo primo volume, una vicenda vera e propria; non ci sono eroi per cui parteggiare, non ci sono neanche contrasti, se non di natura assai secondaria; non ci sono, e questo va detto con molta chiarezza a chi cercasse un secondo Tolkien, i più pallidi tentativi di umorismo. D'altro canto na riafferma sporadicamente i propri diritti con sorprendenti esplosioni: le centinaia di morbidissimi gatti bianchi nelle stanze della contessa; i voli dei fittissimi stormi di uccelli, che a volte scendono anch'essi per posarsi e saltellare sul letto della signora del regno. Proprio la nascita di un erede al quale dà il suo tenue filo narrativo a questo volume: il mostruoso piccolo Tito, appunto, che entrerà più direttamente in azione nei libri seguenti, e il cui padre dopo averlo inserito nella successione diventa pazzo e si trasforma in un gufo, che continuerà a incombere sul castello. Titus ha anche una sorella maggiore, una eccentrica piccola duchessa che resiste ai tentativi di ingraziamene compiuti da uno sguattero, evaso dall'inferno delle cucine e intrufolatosi nelle sue stanze. Non conquistato da questo libro, comunque rispettoso della monomaniaca fatica del suo autore — come si rispettano certe pazienti forme di arte minore che non ci coinvolgono, certi lavori cinesi intagliati, o certi monumenti spontanei californiami — fi recensore si domanda con sincera curiosità a quale tipo di pubblico questa creazione così personale, così circoscritta e così tetra potrà rivolgersi qui da noi. Per lealtà egli deve tuttavia aggiungere che una notevole dimostrazione di adesione Titus di Gormenghast l'ha già ottenuta, dalla sua fine, estrosa e veramente ispirata traduttrice Anna Ravano: il cui lavoro serve ammirevolmente le intenzioni dell'autore, e' merita di essere segnalato e goduto anche soltanto come esercizio stilistico in sé. NON sono davvero «tutti cattivi» i personaggi del romanzo di Vincenzo Cerami, che pure ha questo titolo: anzi, il protagonista Giustino, che è padrone di un parco di divertimenti, la madre Mena, vedova autoritaria e lamentosa, il vecchio maestro Resini, ritrovato dopo tanti anni da Giustino fra le sue giostre, i vari inservienti e aiutanti del parco, la giovanissima figlia del maestro, Esmeralda, sono tutte persone comuni, fondamentalmente simpatiche, pur con i loro scatti, le loro manie. Il titolo sarà allora soltanto ironico: «cattivi», si, tutti, ma come può definire cattivi gli altri un bambino, perché non gli lasciano fare quello che vorrebbe o non ha subito quello che desidera. Lungo una vicenda presso che Inesistente, Cerami sa disegnare con grande e alacre efficacia i ritratti del suol personaggi, sempre colti piuttosto nelle manie, nei tic, nelle bizzarrie, negli scatti d'ira o di sorpresa, che approfonditi da una congrua analisi ovvero visti in azione, nei fatti e nei comportamenti. La vita di Giustino é quella di un entusiasta del suo mestiere di gestore e di inventore di divertimenti: vive con la madre delusa e patetica, ha come amante la miope Gilda addetta a un tiro a segno, brutta ma generosa e discreta, ha intorno a sé inservienti fedeli anche se non sempre abili, come il simpaticissimo Pinocchio: e l'occasione di una crisi, a dire il vero non poi troppo radicale, è semplicemente rincontro con il vecchio maestro delle elementari, capitato fra le giostre con la figlia Esmeralda. Giustino incomincia a ■frequentare la casa del maestro, si sottopone alla mania del Rosini di fargli fare i compiti e studiare le lezioni, riprendendo le abitudini dell'infanzia, si lascia innocentemente conquistare dalle piccole astuzie, dall'acerba grazia, dai capricci di Esmeralda, che gli mette a soqquadro il laboratorio dove Giustino lavora a nuovi giochi. Alla fine, il maestro e la madre di Giustino decidono di sposarsi, c'è una gran festa di nozze e c'è la partenza per Copenaghen dei due sposi, perché Mena ha sempre desiderato vedere il Tivoli, e il romanzo si chiude sulla •notte brava» di Giustino e di Esmeralda, ormai fratello e sorella, che, di ritorno dalla stazione, si mettono a suonare i campanelli delle case e a far scattare l'allarme delle automobili per le strade, suscitando ire. confusione, perfino colpi di pistola e interventi della polizia. E' un finale allegro e irriverente, dove Giustino, per la compagnia di Esmeralda, ritorna come ragazzo e si sente all'inizio di una nuova fase della sua vita. Ma tutto il romanzo ha, in sé, un senso di gioco, di divertimento, di vacanza, che è determinato dall'ambiente del parco di giochi e di giostre in cui si svolge e dalla Roma di periferia sempre come in una decomposta fiera che lo circonda. Di qui deriva anche l'impressione conclusiva che Tutti cattivi lascia: quella di un divertito esercizio dello scrittore, abile, raffinato, sapientissimo nel calcolare effetti ora comici ora un poco patetici, ma sempre con distacco, con un poco di ironia e quasi di sopportazione per la mediocrità e gli errori e le manie dei suoi personaggi. La rappresentazione, di conseguenza, rimane un poco in superficie, non va oltre, non cerca di attingere qualche significato un poco più ampio o profondo. Tutti cattivi è un gioco, neppure troppo impegnativo: ben condotto, descritto con eleganza e misura, ma anche fine a se stesso. Una volta giocato, non resta molto: forse soltanto il ritmo lieve e lieto della notte di birichinate di Giustino e di Esmeralda. G. Bàrberi Squarotti Vincenzo Cerami, Tutti catti vi. Garzanti, 192 pagine, 8.000 lire.

Luoghi citati: Adelphi, Cerami, Copenaghen, Giustino, Gormenghast, Tivoli